Vivere da extracomunitari in un Paese europeo è particolarmente difficile per i mille problemi di adattabilità , di scelta dello stile di vita o anche di delinquenza che si presentano giornalmente e che fanno apparire gli stranieri tutti uguali, con una stessa unica etichetta che li comprende in modo negativo.
Io, Elena, trentasettenne di origini ucraine , ho scelto di venire in Italia solo per lavorare e creare una mia nuova famiglia, dopo le mie tristi e esperienze di vita nel mio Paese d’origine.
Ciò non toglie che io non mi senta ancora ucraina fin dalle mie più profonde radici, porto con me il carattere del mio popolo, le inquietudini della sua storia più recente, le trasformazioni di un regime che sembrava inattaccabile e che abbiamo visto crollare come una pera già giunta a maturazione, porto con me il disagio di chi non sa più a cosa attaccarsi, a cosa credere ed in cosa sperare.
Partendo dal mio Paese in cerca di una nuova vita, proprio come facevano gli emigranti italiani agli inizi del secolo, avevo un solo pensiero, riprendere con me mio figlio, un bambino di dieci anni che avevo affidato alla nonna ed a cui avevo promesso che sarei presto tornata a riprenderlo.
“Verrai in Italia con me!” continuavo a ripetergli telefonicamente e con queste parole cercavo di supplire la mia mancanza, l’assenza di coccole da parte di una madre latitante che era fuggita via dal suo paese per cercare nuove alternative di vita.
Sasha intanto cresceva lontano da me e le mie viscere si contorcevano al pensiero del mio bambino, mentre le lunghe notti sembravano non finire mai sempre con il pensiero fisso che poteva succedere qualcosa di brutto , che il mio piccolo poteva, non so, ammalarsi, avere un incidente, morire , mentre io me ne stavo a migliaia di chilometri di distanza, completamente impossibilitata a dargli un minimo aiuto.
E fu così che trascorsero gli undici, i dodici, i tredici, i quattordici anni di Sasha.
Viveva in casa della nonna e del compagno di lei, amato certamente da mia madre ma con il cuore in sospeso, pronto a prepararsi a partire verso l’Italia, non appena io l’avessi chiamato.
Le molte difficoltà in cui sono venuta a trovarmi in Italia e la nascita di una seconda figlia, questa volta italiana e con un padre italiano, sono state la causa del ritardo accumulato nei suoi confronti.
Ma forse è meglio che racconti la mia storia sin dall’inizio, da quando vivevo felice in Ucraina con i genitori e mia sorella Natalia, di cinque anni più giovane di me.
Negli anni ’70, quando ero una bambina, eravamo in pieno regime comunista.
Lo Stato organizzava la nostra vita e noi ci affidavamo ad esso, come ad un buon padre che ha a cuore la salute dei suoi figli.
Ci dicevano che eravamo molto fortunati a vivere sotto il regime, perché ci era garantito tutto ciò che era necessario, potevamo studiare e preparare il nostro futuro, avere tutto ciò di cui avevamo bisogno, in barba agli Stati capitalisti dove non era garantito il lavoro per tutti.
Se devo dire la verità, nella mia famiglia si viveva però meglio che in altre famiglie dell’Ucraina. Mio padre aveva fatto una bella carriera nel campo legislativo ed aveva ottenuto un buon posto di lavoro.
Aveva studiato legge quando già era sposato con mia madre, la quale l’aveva stimolato molto aiutandolo anche economicamente con un lavoro intenso, mentre lui pensava solo a studiare. Nelle ore libere dal lavoro ufficiale lei faceva delle riparazioni di sartoria e provvedeva ai bisogni della famiglia che sopravviveva grazie ai suoi sacrifici. La nascita di due bambine, me e mia sorella, aveva contribuito ad accrescere le difficoltà, ma alla fine mio padre riuscì a raggiungere l’obiettivo della laurea in legge e cominciò una brillante carriera fino a svolgere la funzione di Pubblico Ministero. A causa di questa sua situazione di privilegio, fummo costretti spesso a spostarci in varie città dell’Ucraina, ma per noi bambine non si trattava di grosse sofferenze.
Mia madre, che proveniva da una famiglia culturalmente elevata ed anche economicamente benestante, aveva fatto di tutto per superare le condizioni difficili degli inizi della sua vita matrimoniale mostrandosi sempre pronta a stimolare marito e figlie alla istruzione, ritenuta da lei fondamentale. Per questa sua intelligenza e capacità di adattamento, riusciva a trovarsi bene dappertutto ed a trovare da lavorare anche nei difficili anni del comunismo.
La mia infanzia apparentemente tranquilla portava in sé una carica enorme di problemi che vennero alla luce con il passare del tempo.
I privilegi di cui cominciò a godere mio padre con la sua attività finirono con il ritorcersi contro di me e mia sorella perché le persone che avemmo la sfortuna di incontrare negli anni giovanili cercavano da noi solo favoritismi ed aiuti dal nostro genitore. Mia madre, spartanamente, ci educava a contare solo sulle nostre forze ed a non chiedere nulla a nessuno, neanche a nostro padre.
Finiti gli studi secondari, mi iscrissi all’Università, in scienze dell’economia.
Ero abbastanza brava in matematica e pensavo di diventare una “economista”, esperta in discipline economiche.
Mentre frequentavo l’università nella città di Kharkov, conobbi Andrej. Avevo solo diciotto anni e, come tante ragazze della mia età avevo voglia di amare ed essere amata. Non mi sentivo certamente pronta per un matrimonio ma i miei genitori e quelli di lui ritennero giusto farci sposare, visto che abitavamo entrambi in una città diversa dalla loro. Così, a diciannove anni, mi ritrovai sposata con un ventitreenne ancora immaturo e desideroso soltanto di ricavare da questo matrimonio qualche privilegio da mio padre.
Dopo due anni nacque Sasha . La nascita del bambino non mi portò serenità e mentre lavoravo, studiavo e pensavo al mio bambino, lui, mio marito faceva solo finta di lavorare.
Allora cominciai ad avere le prime grandi difficoltà della mia vita, non ero aiutata da nessuno, nemmeno da mia madre che continuava a ripetermi che dovevo cavarmela da sola, come aveva fatto lei; anzi arrivò al punto di vietare categoricamente a papà, che avrebbe potuto farlo grazie alla carica che ricopriva, di aiutarci.
Attraversai allora dei momenti molto difficili perché Andrej, avendo perso la speranza di trovare una buona sistemazione, finì con l’allontanarsi sempre di più da me e dal mio bambino. Frequentava altre donne e tornava a casa ubriaco fradicio, mi faceva continue scenate e gridava contro di me per nulla.
Non ce la feci più, scappai da casa con mio figlio e non volli vederlo mai più.
Dopo la fine di questa mia prima storia, amareggiata e delusa, ritornai a vivere nella casa dei miei.
Avevo una laurea conseguita con ottimi voti, il piccolo Sacha cresceva abbastanza bene e mi sembrava che gli incubi fossero finiti.
A 25 anni, incontrai il mio secondo uomo. Era molto più vecchio di me, già separato dalla moglie ed economicamente un buon partito. In quegli anni di ripresa economica si facevano strada le persone attive che, partendo dal nulla, riuscivano a creare delle solide posizioni. Vladimjr lo fece, grazie anche all’aiuto offertogli da mio padre ed io pensai che potevo finalmente avere un po’ di serenità.
Mi misi insieme a lui per ricreare la mia famiglia e dare una figura paterna a mio figlio. Agli inizi della convivenza, Vladimjr fu molto affettuoso e caro ed io lasciai , spinta da lui, un buon lavoro presso una farmacia che gestivo insieme ad una mia amica. Per un certo periodo mi sentii realizzata sia come donna che come madre, godevo di una certa agiatezza ed avevo una casa confortevole.
Quando però i miei genitori, dopo 26 anni di matrimonio , decisero di divorziare, sia la loro che le famiglie delle figlie subirono un clamoroso sbandamento.
Mio padre, liberatosi dal giogo in cui si sentiva costretto da mia madre, cercò rifugio tra le braccia di una donna molto più giovane di lui, la sposò in chiesa ed andò a vivere con lei a Kiev.
Il trasferimento di mio padre portò come conseguenza anche la fine della mia unione con Vladimjr che, avendo perso la protezione di cui godeva per i suoi affari, cominciò a trascurarmi ed a cercare nuove avventure.
Anche mio padre si dimenticò presto sia di me che di mia sorella e, divenuto padre di due bambini, prese ad interessarsi solo della sua nuova famiglia.
La mamma, divenuta ormai povera, decise di venire a lavorare in Italia.
Capii allora per la prima volta che noi Ucraini potevamo avere delle nuove possibilità uscendo fuori dal nostro paese, potevamo guadagnare di più e creare un futuro diverso per i nostri figli.
In quel periodo, gli stipendi medi per un lavoratore in Ucraina erano irrisori e i soldi che si potevano guadagnare in un mese in Italia facendo anche la donna delle pulizie o la badante agli anziani, erano pari allo stipendio di un anno nel nostro paese.
Mia madre arrivò in Italia da clandestina, come facevano in molti e come ancora molti continuano a fare.
Lavorò in Italia come badante per due anni e, al ritorno, consigliò a noi figlie di cercare la via dell’emigrazione.
Finita la storia con Vladimjr, mi ritrovai ancora una volta sola con il mio bambino di nove anni e senza alcun lavoro. Potevo contare solo su me stessa e non avevo nessuno su cui fare affidamento.
Decisi di venire in Italia ed iniziare una pagina bianca della mia vita.
Pensavo di lavorare ed avere la possibilità di incontrare qualcuno che fosse diverso dagli uomini del mio Paese, tutti protesi al guadagno facile e con poche certezze di stabilità.
“Qui in Ucraina la famiglia non ha basi sicure - mi ripetevo - non abbiamo un futuro da costruire perché tutto è estremamente precario. Voglio credere che ci sia un posto dove la famiglia conti ancora qualcosa, un posto in cui un padre ed una madre riescano a svolgere il loro ruolo senza conflitti e dove mio figlio possa trovare quelle sicurezze che gli sono state negate da bambino.” Avvertivo fortemente il senso della famiglia tradizionale, quella che avevo scoperto sui libri e che a me era stata purtroppo negata.
Nel mio paese è molto difficile avere un permesso di uscita, occorre dimostrare di avere i mezzi per mantenersi, conoscere qualcuno in Italia che paghi una cauzione e poi ci sono mille altri intoppi, tanto che si finisce con il preferire la scorciatoia della clandestinità.
Io entrai in Italia con un sotterfugio. Dimostrai, con l’aiuto di una signora compiacente, mamma di una mia amica, di lavorare in Ucraina come operaia presso la sua azienda e di voler fare una gita turistica in Germania.
In realtà, l’azienda era piccolissima e con pochi lavoratori. Falsificammo alcuni dati e riuscimmo a dimostrare che io percepivo uno stipendio tale che mi permetteva di fare una gita in Germania.
Tutto andò bene, mi fu dato il visto e mi preparai per la partenza.
Con il cuore straziato affidai il mio bambino a mia madre dicendole che sarei tornata presto a riprendermelo e iniziai il mio viaggio di emigrante alla volta della Germania. Da lì, come turista europea, riuscii ad arrivare in Italia, Paese tanto desiderato.
Mia sorella, insieme al suo compagno di nazionalità ucraina, si trovava già in Italia ed aveva trovato lavoro in una città siciliana, Mazara del Vallo. Li raggiunsi e iniziai la mia nuova vita in Italia.
Mi sembrava di essere arrivata nell’Eldorado che avevo sognato per tanto tempo... Avevo solo bisogno di uscire dalla clandestinità, ma non c’erano per me molte prospettive.
Iniziai a lavorare presso una lavanderia di Mazara e riuscii anche ad avere un piccolo appartamento tutto per me sopra il locale in cui lavoravo.
Cominciarono allora le proposte degli uomini del luogo, volevano prestazioni sessuali ed offrivano protezione ed assistenza.
Caddi dalle nuvole quella prima volta che un conosciuto professore d’inglese della città mi fece la proposta di andare a letto con lui la sera stessa in cui l’avevo conosciuto!
Così fu per altri uomini che in quel periodo mi vennero presentati. C’è una incredibile caccia alle extracomunitarie da parte di alcuni uomini che, approfittando del nostro momentaneo bisogno di aiuto, pensano di riuscire ad avere facilmente ragione su di noi. Ci prendono tutto, ma non la nostra anima.
In Sicilia poi la mentalità comune è così fortemente maschilista e legata all’idea dell’uomo dominatore che si finisce facilmente con il ritenere la donna, e soprattutto la extracomunitaria, come un essere inferiore, una specie di schiava che deve solo essere riconoscente ed ubbidire.
Non sapendo assolutamente nulla della mentalità dell’uomo siciliano, mi lasciai trascinare in un’altra delle mie poco felici avventure.
Conobbi un uomo di diciotto anni più vecchio di me, Pino, siciliano libero da legami e desideroso in quel periodo di compagnia femminile.
Mi fece una corte discreta, diversa da quella a cui mi avevano abituata gli incontri sporadici con altri giovani del luogo, mi portò al ristorante e mi fece fare qualche passeggiata in macchina.
Quante volte mi sono detta: che stupida sei stata! Quante volte mi sono pentita di essere andata con lui e di essermi fatta travolgere dal mio forte desiderio di ricomporre la mia famiglia!
Quando rimasi incinta, Pino sembrò contento anche perché da sue precedenti unioni non aveva mai avuto figli ed era convinto che non ne avrebbe mai avuti. Mi fece conoscere la sua famiglia e tutti i suoi parenti concordarono sul fatto che io dovessi tenere il bambino che portavo in grembo.
“Adesso mi sposa! -pensavo- così posso andare a riprendermi Sacha! “Non fu così.
Pino, dopo aver avuto la bambina ed appagato la sua paternità, non ha mai parlato di regolarizzare la nostra unione né ha mai fatto qualcosa per permettermi di ricongiungermi con mio figlio Sacha.
La piccola Michelle è la sola persona che lui ha nel cuore. Io non conto nulla.
Tre mesi fa, stanca di attendere il suo beneplacito per far venire Sacha in Italia, con un colpo di mano, ho portato clandestinamente con me in Italia il mio ragazzo di quattordici anni.
Pino ha reagito nel peggiore dei modi. Non voleva, non vuole e non riesce ad accettare la presenza di mio figlio nella sua casa.
Dice che non si sente più padrone e che io e mio figlio facciamo comunella contro di lui, dice che dobbiamo smetterla di essere ucraini, che dobbiamo trasformarci in italiani e pensarla esattamente come lui. Rimpiange i soldi che ha speso per me e mi rinfaccia continuamente la sua bontà e magnanimità nei miei riguardi.
Io, extracomunitaria proveniente da un Paese sottosviluppato, ho osato fare qualcosa senza la sua approvazione, ho osato portare con me mio figlio ucraino e creare un pezzo di Ucraina nella sua casa! Inammissibile! Sacha doveva venire in Italia già italianizzato, anzi Pinizzato, cioè come lui, Pino, il solo padrone della nostra vita.
In questi mesi mio figlio ha regolarmente frequentato la scuola media e gli insegnanti lo trovano molto intelligente e recettivo. E’ solo desideroso di stare con la sua mamma, dopo averne subito l’assenza per quasi cinque anni. Io lavoro come collaboratrice domestica ad ore
e cerco di essere una buona mamma per entrambi i miei figli , la piccola Michelle, coccolata e viziata dal padre e dall’intera sua famiglia,e Sacha, che dell’Italia ha conosciuto solo il lato peggiore.
Oggi le cose sono proprio precipitate in modo tale che la sola cosa che mi resta da fare è quella di riportare mio figlio in Ucraina dalla nonna ed aspettare che diventi maggiorenne . Ed io? Dovrò rimanere a vivere con la mia bambina e l’uomo che mi ha trattato , e continua a trattarmi, tanto male o, ancora una volta ,mi toccherà fare le valigie per ricominciare tutto da capo?
Sono una donna senza speranza, il mio grido di dolore parte dal più profondo della mia anima.
martedì 6 maggio 2008
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