domenica 2 agosto 2009

Giocavamo alla Casina

GIOCAVAMO ALLA “CASINA”

di Maria Grazia Vitale

Dalla piazza Matteotti le vidi avanzare verso il Corso procedendo quasi in fila. Due ragazzette andavano avanti dandosi la mano, altre due seguivano a breve distanza mentre le ultime due completavano la fila. Si sentono come a scuola, pensai, camminano disciplinatamente e non scendono dal marciapiede anche se la strada è tutta libera.
A Mazara infatti il sabato pomeriggio il Corso rimane libero dal traffico automobilistico e permette agli adulti di passeggiare tranquillamente anche nel centro della strada ed ai bambini di correre liberamente da una parte all’altra. Due donne a braccetto al ritorno della messa vespertina si raccontavano gli ultimi avvenimenti, mentre i commessi dei negozi si preparavano alla chiusura e pregustavano l’uscita del sabato sera.
Tutto il Corso si preparava alle distrazioni del sabato notte.
Il gruppetto delle ragazzine mi passò davanti con un cicaleccio allegro e palpitante di vita proprio mentre, in un momento di pausa, mi ero ritrovata quasi a spiare, dal balcone di casa, la vita del Corso.
Non avevano più di undici, dodici anni, le ragazzine, ma si atteggiavano a signorinelle e, mentre procedevano barcollando su scarpe dal tacco troppo alto per la loro età giovanile, gettavano occhiate fugaci a gruppi di maschietti, giovanissimi anche loro, che andavano avanti spingendosi chiassosamente.
Le due ragazzine in prima fila, quelle che si davano la mano, indossavano entrambe una gonna molto corta e una camicetta che lasciava fuori il pancino e l’ombelico. Nella mano libera portavano una borsetta piccolissima da cui tiravano fuori continuamente il cellulare. Una ragazzina di centro aveva una stazza considerevole, ma con la noncuranza tipica dell’età, si era fasciata in un mini abito color melanzana stretto, aderente e cortissimo. Le altre tre indossavano normalissimi jeans e semplici magliette. Erano straordinariamente giovani ed inesperte e le loro espressioni infantili mi fecero pensare alla mia infanzia lontana.
Dopo un po’ di tempo, forse il tempo occorrente per arrivare fino in piazza Mokarta e tornare indietro, dovetti occuparmi ancora delle ragazzette.
Si erano piazzate infatti dietro la porta di casa mia, sedute sul marciapiede e senza le scarpe con i tacchi che, a quanto pare, avevano procurato loro dei fastidi.
- Che fate, ragazze? - dissi quando le vidi stravaccate dietro la porta di casa - avete bisogno di qualcosa ?
- No, non si preoccupi, signora - mi rispose una ragazza - ci riposiamo e giochiamo con il telefonino.
Mi accorsi allora che tutte quante avevano in mano un cellulare e, ognuna per suo conto, stava giocando o mandando messaggi, non capivo bene.

Mi rividi bambina. Cosa facevo alla loro età? Io e le mie compagnette giocavamo alla casina.
Ci radunavamo nei crocicchi delle strade alla luce di un lampione e decidevamo di giocare insieme. Le gote rosate per il vento, traboccanti d’allegria ed eccitazione, saltellavamo e correvamo da un punto all’altro gridando con le nostre voci ancora acerbe ed in via di formazione.
Non c’era bisogno di attrezzi particolari, né occorreva ingegno ed abilità per giocare alla casina.
C’era bisogno soltanto di un pezzo di carbone, un gesso o qualcosa che potesse lasciare un segno sul lastricato della strada.
Si cominciava a tracciare un grosso rettangolo, nel cui interno si delineavano dei quadrati, quattro per l’esattezza, uno in ogni angolo. Al centro ridefiniva il disegno chiudendo con una grossa ics.
Si procedeva quindi alla numerazione: dal numero uno al numero otto.
E, a questo punto, il gioco poteva cominciare. Ciascuna delle giocatrici, dopo aver provveduto a procurarsi una pietra, la baggiana - di solito era qualche pietruzza che trovavamo per strada o un sasso che avevamo trovato in spiaggia e che avevamo conservato per poter fare il gioco - si preparava al lancio ed all’attraversamento delle sezioni in cui era stata divisa la casina.
Uno, due, tre, via. Regola numero uno: la baggiana deve entrare all’interno della sezione senza toccare alcun limite, cioè non deve toccare la riga divisoria o entrare in una sezione diversa da quella che spetta toccare. Se si sbaglia, bisogna riprendere daccapo la numerazione.
Saltellavamo con un piede, con due piedi uniti, usavamo varie strategie per recuperare il sasso che avevamo buttato.
Quando i genitori ci chiamavano perché era tardi, ci salutavamo allegramente e ci lasciavamo inghiottire dalla oscurità della notte eccitate e stanche.
Le ragazzine di oggi mostrano un volto annoiato e sentono il bisogno di sedersi in qualsiasi posto per riposare le gambette stanche di stare sopra i trampoli, noi ragazzine di un tempo non sapevamo cosa fosse la noia, correvamo di qua e di là fino a cadere stremate sui nostri lettini per abbandonarci al sonno ristoratore.
Sarà stato meglio allora?