domenica 15 novembre 2020

La monaca con la pistola

 


     LA MONACA 

 CON LA PISTOLA     



              di MARIA GRAZIA VITALE









La prima cosa che notai in quel piccolo essere che tutti nella famiglia di mio marito chiamavano “la zia monaca”, furono i suoi occhi: molto scuri, molto calmi. Capii perché si parlava tanto di lei, doveva essere una persona eccezionale.

Aveva una espressione estremamente seria, non però cupa o greve. Notai che sorrideva poco ma dimostrava di essere una persona cordiale e alla mano. 

Si rivolse a me che da poco avevo iniziato il cammino di giovane sposa:<< Mi hanno detto che sei una insegnante, brava! >>

I suoi tratti, anche se dimostravano tutta la loro età, erano abbastanza gradevoli: un viso scavato ma ben modellato, bocca piccola e quasi completamente sdentata, naso largo, zigomi alti. Non si vedeva il colore e la forma dei capelli perché erano interamente coperti da un velo da suora.

Non potei fare a meno di notare le sue mani che si muovevano a scatti, come spinte da un impulso che le spingeva a rifugiarsi nelle lunghe e capaci tasche della tonaca nera per cercare qualcosa di cui aveva bisogno.

C’era un non-so-che di terribimente deciso in lei, nella sua calma.

<< Siate sempre legati l’uno all’altra - disse a me e a mio marito - ricordate che, solo volendovi bene,  riuscirete a fare del bene anche  agli altri!>>  La zia monaca aveva  un accento strano,  mescolava   il siciliano  ad altri  tipi di dialetti, tanti quanto quelli in cui si era trovata a vivere nel corso della vita. 

La guardavo ammirata. Era lei la donna di cui parlava tanto mio suocero, era la sorella maggiore che, sin da bambina, aveva  affermato con convinzione che sarebbe diventata una suora.

<< Non è mai stata una bambina normale - dicevano i fratelli- lei giocava con le bambole vestite da suora! Aveva però anche il pensiero ai bambini, i picciriddi che vivevano in situazioni difficili e a loro dedicava tutto il suo tempo>>.

Le chiacchiere sulla zia monaca avevano stimolato molto la mia fantasia e, per questo motivo, quando mio marito, durante uno di quegli avventurosi  viaggi che ci portavano dalla Sicilia in Emilia, dove avevamo trovato il lavoro come insegnanti, mi propose di  andare a trovare la zia monaca, acconsentii con piacere.

La riconoscemmo subito! Se ne stava seduta su una vecchia sedia di legno in un angolo del cortile  malmesso  di un vecchio monastero  e guardava i bambini che giocavano a palla. 

L’aspetto mi risultava familiare e, anche se curva e magrissima, aveva l’aria di famiglia.

<< Zia, - le chiesi dopo esserci presentati e averla abbracciata con affetto - quanti anni hai?>>

<< Sono più di settanta - mi rispose - ma voglio ancora servire il Signore e fare quello che posso per aiutare i più deboli>>.

Tirò fuori allora dalla profonda tasca del vestito da suora un piccolo libro con la copertina marrone. Era sciupato e con le pagine ingiallite, era un libro sofferto e meditato. Chissà da quanto tempo!

<< Ecco - mi disse - tienilo caro come ho fatto io per tanti anni. In questo libro troverai  le preghiere che ti aiuteranno nel corso  della vita >>.

L’abbracciai commossa. Nessuno mai mi aveva donato un libro di preghiere e nessuno mi aveva mai detto che avrei avuto dei problemi da affrontare. Avevo sempre pensato alla mia vita come ad un sentiero pieno di petali di rose che si sollevavano leggermente in aria al passaggio di due cuori innamorati.

Volevo però saperne di più. Volevo conoscere lei, la donna che aveva scelto di non creare una famiglia tutta sua, ma di vivere  dedicandosi  agli altri, ai più  bisognosi, ai deboli,  a chi richiedeva aiuto.

<< Zia! - dissi allora- quando hai capito che volevi fare la suora? La tua è stata una scelta libera oppure ti sei fatta influenzare da altri?>>

<< Libera sono stata, sempre di testa mia ho fatto le cose. Mio padre, don Severino, non voleva che diventassi monaca. Io però sapevo sin da piccola quale sarebbe stato il mio futuro>>.

<<Ma è vero che portavi sempre con te una pistola?>>

Un leggero impercettibile movimento delle labbra fu la sua risposta.

La mia curiosità prese allora campo e si trasformò in una serie di domande incalzanti volte a ricostruire il passato di quella piccola donna che mi stava davanti.

Rispondendo alle mie domande, Suor Antonietta, che conservava nel cuore tutti i momenti che avevano caratterizzato la sua personale vocazione, mi raccontò il film della sua vita.






 



Era il 1912 e lei aveva solo dieci anni. Si trovava con il padre a Santa Ninfa  in un campo detto “fenestrelle”. Era questo un luogo ricco di tombe rupestri che, viste da lontano, assumevano appunto  la sembianza di tante piccole finestre.  

Un fortissimo temporale aveva imperversato per tutta la notte. Antonietta, rannicchiata nel lettino di campagna dove il materasso, riempito di crine e paglia, non la smetteva mai di crepitare e sfrigolare, aveva tenuto quella notte il lume acceso stringendo al petto il suo amato rosario. Pregava raccomandandosi alla clemenza divina, sperava che non ci sarebbero stati molti danni in campagna e nelle povere case dei contadini.  Ogni tanto perdeva il filo della preghiera a causa dei forti rumori di tuoni, poi ricominciava a pregare. 

Quando il temporale finalmente si diede una tregua, Antonietta scese dal letto e, a piedi scalzi, si diresse verso la camera dove dormiva il padre. Non aveva sentito nulla lui, aveva continuato a russare e sognare sotto la coperta di lana rossa che faceva parte del corredo nuziale.

Antonietta aprì la porta cigolante della camera dove troneggiava un letto matrimoniale di nichel lucido e brillante e cercò di vedere nell’oscurità la sagoma del padre. Fu allora che don Severino, balzato a sedere sul letto e resosi conto che nella sua stanza era entrato qualcuno, afferrò la pistola che teneva sempre pronta sul comodino, accanto alle immagini dei santi protettori. 

La teneva sempre con sé la pistola, di notte e di giorno; era la compagna preferita, la sua sicurezza personale, il passatempo più caro. 

<< Li latri, li latri ! >> gridò con la pistola puntata verso qualcuno che avanzava nella stanza e che riusciva appena a intravedere con gli occhi impastati dal sonno.

<< No, patri nun ci sunnu latri, c’è lu temporali! >>   La ragazza si avvicinò a passettini, sedette ai piedi del letto del padre e cercò di farlo tranquillizzare. Non c’erano ladri, né delinquenti in quella campagna sperduta dell’entroterra di Santa Ninfa. E poi cosa avrebbero potuto rubare? Don Severino ascoltò le parole della figlia ma non poteva finire così semplicemente la loro conversazione. <<Figghia me’, li cosi chi dici, sunnu cosi giusti, ma ci voli sempri una pistola pi garantiriti la vita!>>

Una pistola per garantire la vita. Questo era stato uno degli insegnamenti del padre e Antonietta sapeva che, armata di pistola, avrebbe difeso non soltanto se stessa ma anche  quei bambini  che un giorno  le sarebbero stati affidati.

I bambini, si! Lei sarebbe stata una suora ma anche una maestra. Una maestra suora. 

Fu nel 1932 che i sogni di Antonietta, ormai ventenne, si concretizzarono con l’arrivo di un telegramma di nomina come maestra. Decise subito di accettare. 

Si diceva nel telegramma che Antonietta avrebbe dovuto recarsi in un piccolo paese d’Abruzzo per sostituire come insegnante una vecchia suora. Quando don Severino lesse il telegramma con la nomina a maestra della figlia, ebbe un moto di stizza. <<L’Abruzzo, l’Abruzzo… dunni è stu Abbruzzu?>>

<< T’accumpagnu iu!- disse subito dopo, con un tono perentorio ma al contempo amareggiato - Vogghiu vidiri dunni va a finiri me figghia!>>

Antonietta, apparentemente tranquilla e sicura di sé, accettò di buon grado ciò che il padre le proponeva. Aveva, in verità, un po’ di paura. Il viaggio in treno e il soggiorno in quel lontano paese potevano essere pieni di insidie per una ragazza giovane come lei. 

Alla stazione di Mazara si raccolse  una piccola folla di amici e parenti venuti a salutare la giovane Antonietta.

 << Tanti auguri,  Antonì, speriamu chi ti la passi beni a stu paisi!>>

<<Certu chi si la passa bona! - replicò don Severino - idda è la maestra e tutti l’hannu a rispittari, ma sinnò…>> A questo punto della conversazione don Severino mise la mano in tasca facendo capire ai presenti che, come era fornito di un’arma lui, poteva esserlo anche la figlia. 

Antonietta invece non ci pensava proprio alle pistole.  I suoi erano sentimenti di altruismo e donazione agli altri, ai più deboli, e niente avevano a che fare con la violenza e le armi.

Il paese dove Antonietta fu   inviata come maestra aveva il nome di Ateleta e si trovava a 735 metri di altitudine.  Fondato da Gioacchino Murat nel 1811, durante il decennio francese del Regno di Napoli, il paese era l’ultimo centro della provincia dell'Aquila, al confine con la regione Molise. L'abitato ricordava molto il centro siciliano di Santa Ninfa dove Antonietta era solita soggiornare durante l’estate, soprattutto per il suo contesto naturalistico molto  suggestivo, formato da monti boscosi e dalla valle del fiume Sangro. 

Quando, alle prime luci del mattino il treno si fermò  alla stazione dell’Aquila, padre e figlia si guardarono sconsolati.  Il freddo era così penetrante ed intenso che non potevano   bastare gli indumenti che li ricoprivano.

<< E ora dove andiamo?- disse titubante Antonietta stringendo forte la mano del padre - Come possiamo raggiungere Ateleta e la scuola dove devo insegnare?>> 

Ci riuscirono finalmente e don Severino dovette rassegnarsi a lasciare la figlia in quel luogo  così freddo e inospitale.  

<<Teni figghia mia, chista ti po' serviri!>> disse don Severino consegnando la sua pistola alla figlia prima di ripartire alla volta della Sicilia.<< Nun lu diri a nuddu chi hai una pistola. Ma si ti trovi in difficoltà, pigghiala e nun ti scantari !>>

Antonietta aveva una certa dimestichezza con le armi. Le aveva sempre viste al padre, le aveva pulite, maneggiate e qualche volta aveva anche sparato. Senza mai rivolgersi a uomini o animali, però.

La giovane maestra prese l’arma che il padre le offriva e la nascose  tra le pieghe della lunga nera veste.

 Così partirà contento! pensò.

Il lavoro nella scuola del paese fu per la giovane Antonietta  abbastanza appagante. I bambini le si affezionarono subito, forse per via di quel sentimento spontaneo che porta i piccoli a seguire le persone semplici e ricche di amore.

 Per due anni Antonietta rimase nel paesino abruzzese senza mai tornare a casa. Il sogno che covava nel cuore, quello di diventare suora, continuava  però a farsi sentire. Nei suoi sogni fantastici si vedeva vestita di bianco con un grande cappello e con tanti bambini da educare e accudire.

Così quando la giovane venne a sapere che in un paese vicino abitava una monaca dell’ordine di San Vincenzo, decise di andare a trovarla. Fu quello un incontro decisivo per la sua vita. Anche lei, come la vecchia suora, sarebbe divenuta una Figlia della Carità di San Vincenzo da Paola. Conosceva bene quali  erano i compiti della Compagnia della Carità: combattere le più svariate forme di povertà e dare alle donne un ruolo sociale attivo.  Era per lei una scelta veramente importante e significativa.

Ottenuti i voti a Parigi, Antonietta riuscì  finalmente a coronare il suo sogno da bambina. Avrebbe avuto il suo vestito da monaca. Lungo e bianco, con un gran  cappello che avrebbe  incorniciato  il suo bel  volto ancora ingenuo e assolutamente privo di malizia.

Da quanto tempo non scriveva a casa? Antonietta , come un uccello migratore, aveva  lasciato in Sicilia i suoi affetti più cari ed era partita per andare a servire i piccoli, i più deboli,  i  più bisognosi del suo aiuto. I fogli di carta da lettere e la penna stilografica che il padre le aveva    lasciato, giacevano   abbandonati in un angolo dello scrittoio insieme alle lettere da Mazara che arrivavano puntualmente e a cui Antonietta rispondeva di rado. I bambini delle sue classi scolastiche dipendevano  da lei e a loro lei si sentiva disposta a dare il suo affetto incondizionato.

La pistola la portava sempre addosso, non perché la riteneva   necessaria ma per un pudico desiderio di non fare notare agli altri, soprattutto ai padroni di casa, che lei possedeva una pistola.


 Un giorno, (era  l’estate del 1934) Antonietta decise di portare i bambini in campagna per farli giocare all’aria aperta e, nello stesso tempo, insegnare loro alcune elementari regole di coltivazione delle piante.

Il pane fresco era stato ben riposto nelle ceste di vimini, un po’ di formaggio e delle olive sarebbero stati un ottimo genuino accompagnamento per quelle bocche sempre affamate. 

Arrivati in un’ombrosa radura, Antonietta fece cenno ai ragazzini di fermarsi e diede loro il permesso di giocare. Seduta a terra su una coperta, li guardava con il compiacimento più di madre amorevole che di maestra.

Le grida gioiose dei bambini allietavano il suo spirito. Antonietta sorrideva soddisfatta compiacendosi per la sua scelta di vita. 

Ad un tratto, al di là degli alberi, avvertì uno strano rumore.

 “Mio Dio, sarà forse un animale che arriva dal bosco?”

Effettivamente era un animale che veniva  dal bosco. Un grosso, brutto, mastodontico orso.

Suor Antonietta chiamò i bambini ad uno ad uno e se li tenne  accanto aggrappati alla veste. 

Toccò nella tasca la sua pistola. 

“Se si avvicina, sparo!” pensò. Avvertiva dentro di sé un gran  coraggio e il semplice tocco della pistola la rassicurava.

L’orso si avvicinò, i bambini spaventati si misero a gridare. Le ceste di pane rotolarono nel campo.

C’era però una pistola pronta a difendere tutti. 

Antonietta non voleva sparare; l’orso è pur sempre un essere vivente, una creatura di Dio. 

Ad un certo punto però, sembrò quasi che il vecchio orso riuscisse a capire la situazione di paura e imbarazzo che con la sua presenza era  riuscito a creare , si girò e lentamente si avviò fra gli alberi del bosco.

Antonietta rimise la pistola in una delle sue profonde tasche, conservò  anche il rosario che aveva tenuto a portata di mano   e guardò i bambini sorridendo. 

<<Tutto passato, bambini. Raccogliete il pane e ritornate a giocare!>>

<< Sorella, sorella, cosa è successo ieri? >> il giorno dopo, chiese spaventata   la mamma di un bambino. 

Tranquillamente, suor Antonietta rispose: 

<< Niente, niente, non c’è pericolo per i bambini. Io porto sempre  per sicurezza una  pistola!>>.  Sorridendo suor Antonietta mostrò la sua arma, togliendola  dalla profonda tasca della veste da suora.


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