mercoledì 31 dicembre 2008

Da bambina a donna : sulla scia dei ricordi

Sono nata in una cittadina dell’estremo sud della Sicilia occidentale, Mazara del Vallo.
Oggi il nome della mia città è negativamente associato alla mafia, alla delinquenza, allo spaccio della droga o ancora alla recente scomparsa di una bambina di quattro anni di nome Denise; in positivo, Mazara viene ricordata per il porto peschereccio, per il pesce pregiato o per il rinvenimento in mare del Satiro danzante.
A me piace molto la mia città e, durante il corso dei miei sessanta anni, ho sempre cercato di conoscerne la storia, rievocare immagini del passato e ricostruire pezzi di vita lontani nel tempo.
Sin da piccola, ascoltando i ricordi di chi mi viveva accanto, creavo dentro di me delle immagini mentali e in esse mi compiacevo fantasticando su un passato che era presente perché chi lo aveva vissuto era lì, accanto a me, pronto a darmi le spiegazioni che la mia curiosità di bambina voleva richiedere.
Mi attiravano molto, fra le altre, le storie che riguardavano i primi anni del secolo appena trascorso, il mondo dorato della “belle epoque”, quando anche nella mia città si incontravano donne dai lunghi fruscianti vestiti e cavalieri con cilindro e bastone. Lungo la via che da bambina percorrevo ogni giorno, la via Garibaldi, detta un tempo “maestranza”, cioè via Maestra, e nella piazzetta in cui essa sfociava, piazza “Chinea”, si trovavano botteghe ricche di ogni mercanzia; le giovani,accompagnate da donne più anziane ricoperte da lunghi scialli neri, acquistavano stoffe e merletti per preparare il loro corredo da spose ed aspettavano che l’amore bussasse alla loro porta. Chi bussava era poi una sensale di matrimonio, ”la mezzana”, una donna che proponeva il buon partito ed elogiava le virtù dell’uomo di turno, serio e soprattutto “granni travagghiaturi” (buon lavoratore).
Con la fantasia anch’io entravo ed uscivo da quelle botteghe e giocavo a vendere e comprare , avvolta in vestiti lunghi fino ai piedi e dandomi l’aria da gran dama.
Quando poi la nonna descriveva i concerti, “trattenimenti”, che si tenevano nella villa comunale nelle calde ed afose serate d’estate, davo sfogo alla fantasia immaginando dame gentili e un po’ civettuole che agitavano i loro ventagli con foga nascondendo il rossore quando la conversazione con i cavalieri diveniva un po’ più piccante.
Il racconto più divertente di quei lontani anni di primo Novecento era per me quello del bagno in mare.
Poichè l’abbronzatura significava fatica e lavoro sotto il sole, le donne del tempo, preferendo conservare il niveo candore simbolo del loro benestare, si recavano ai bagni di sera, al buio, quasi sempre nascostamente, badando bene a non farsi riconoscere.
Chiedevo allora alla zia, sorella della nonna: “Avevate il costume?” “Non ce n’era bisogno - rispondeva la cara zia Nicoletta - noi donne usavamo un grembiule che ci proteggeva davanti, dietro non occorreva protezione, il sedere l’abbiamo tutti uguale, sia uomini che donne!”
Ridevo e chiedevo alla zia altre storielle, volevo conoscere a fondo la realtà in cui si erano formate le generazioni precedenti alla mia, indagavo su persone e luoghi, ero curiosa del passato.
E’ così che imparai quale terribile cosa fosse la guerra e di come avesse portato dei cambiamenti nel modo di vivere dei miei concittadini; molti giovani erano andati a combattere lontano, ai confini d’Italia, e nelle famiglie scarseggiava la mano d’opera.
Moltissimi erano poi gli emigranti che si imbarcavano per raggiungere l’America e mio nonno era stato uno di loro.
I racconti di mia nonna Francesca riguardavano sempre la sua storia personale, la partenza del marito alla volta dell’Argentina, i sacrifici per acquistare una casa ed infine la sua scomparsa nel nulla.
Di mio nonno infatti si persero completamente le tracce nel 1933, dopo aver scritto nell’ultima sua lettera: ”Era meglio che non avessi venuto qui, na sta disgraziata America!”
La nonna mi mostrava le lettere che conservava gelosamente avvolte in un nastrino di velluto, mi mostrava la foto del marito e mi raccomandava di studiare perché per i poveri c’è sempre in agguato un brutto destino.
I racconti della nonna mi rattristavano per la difficoltà ad entrare nei panni di una persona che si era smaterializzata in un paese straniero di cui nessuno poteva parlarmi; mi piaceva moltissimo invece sentire i fatti accaduti durante il ventennio fascista.
Mussolini ci faceva stare tranquilli, mi diceva con entusiasmo mio padre, non c’erano ladri in giro e a Mazara si stava con le porte aperte!
Non mi piaceva il fatto di stare con la porta aperta ma, pur di ascoltare le storie di quei tempi, ero disposta anche a passare sopra le mie paure di animali che potevano entrare in casa e infilarsi sotto i letti!
Le parate in piazza, le sfilate in divisa, le canzoni patriottiche, gli sventolii delle bandiere, tutto era bello per i giovani dell’epoca.
Durante un ballo di carnevale in maschera, mio padre vide una giovane avvolta nella bandiera tricolore, mia madre, e fu subito Amore. La bandiera, per un ardente fascista come mio padre, aveva fatto certamente colpo ma mia madre, oltre ad essere anche lei innamorata del Duce, era molto carina!
Anche quando fu costretto a partire per l’Africa per assecondare il progetto coloniastico di Mussolini, mio padre continuava a difendere il suo Duce.
Mi faceva ascoltare un vecchio disco su cui era incisa la voce del dittatore che parlava pomposamente della nascita dell’Impero e mi diceva che era un peccato che le cose poi erano andate a finire così male.
Nei racconti di mio padre c’erano i nomi di alcune città africane che sono rimaste scolpite nella mia memoria, Tripoli, Bengasi, Sidi el Barrani, e poi El Alamain, ad 80 chilometri da Alessandria d’Egitto.
Quest’ultima città era una pietra miliare nei ricordi di mio padre perché, in seguito alla clamorosa sconfitta subita dal nostro esercito, sconfitta dovuta anche alla sproporzione degli armamenti, fu preso prigioniero dagli Inglesi e portato addirittura in Australia.
A questo punto iniziava la serie di ricordi da prigioniero, la fame patita, gli stenti ed il pensiero fisso alla fidanzata lontana.
Quando non volevo mangiare qualcosa, papà diceva che lui, in tempo di guerra, avrebbe dato chissà cosa per avere un po’ di cibo e che un giorno, nel suo accampamento, era sparita perfino una grossa patata usata dagli Inglesi per chiudere un tombino. Qualcuno l’aveva mangiata!
Tra i suoi ricordi c’era anche una incredibile caccia alle mosche che veniva fatta dai prigionieri di guerra. Vinceva un pasto chi riusciva ad uccidere più mosche.
Quando finalmente papà potè tornare in Italia, le disavventure continuarono perché il viaggio di ritorno da Napoli, dove era sbarcato, fino in Sicilia durò addirittura due mesi, dato che non si trovavano più in giro mezzi di trasporto.
Aiutandosi in ogni modo e percorrendo a piedi interi tratti, mio padre potè finalmente rientrare a Mazara e riabbracciare la fidanzata che, novella Penelope, lo aveva atteso per anni.
In quegli anni di guerra e di bombardamenti, la mia città era completamente cambiata. Il racconto delle peripezie e dei disagi durante la seconda guerra mondiale veniva fatto comunemente dalle mie zie, le sorelle della mamma, che mi parlavano di “sfollamenti”, abbandono delle case per rifugiarsi nei casolari abbandonati di campagna.
Sentir parlare della mia città deserta, priva di vita, mi dava una gran tristezza, vedevo cani randagi percorrerla in lungo e largo, sentivo il rombo degli aerei che sorvolavano il nostro cielo e mi sentivo stringere il cuore.
Poi mi dicevano che una bomba era caduta sulla casa della zia Nicoletta dividendola in due parti distinte.
La parte distrutta della casa era là, ben visibile ancora durante la mia infanzia; anzi, una delle stanze su cui era caduta la bomba era divenuta, con il tempo, un giardinetto dove cresceva rigoglioso un bellissimo albero di nespole.
Giocavamo alla guerra con i miei cugini e buttavamo bombe di carta sul giardino incolto, mentre mangiavamo le nespole ed usavamo i noccioli come proiettili.
Con l’arrivo degli Americani le cose poi erano cambiate, mi dicevano gli zii.
Dall’alto delle jeeps, i soldati americani buttavano scatolette di carne e cioccolata, mentre i miei concittadini facevano ritorno tristemente nelle loro case abbandonate.
La storia degli anni della prima metà del Novecento era per me viva e reale; più tardi la ritrovai nei libri di scuola e la riconobbi subito, avendola appresa da bambina con il semplice racconto di vite vissute.
Sempre riferendosi a quegli anni di guerra e dopoguerra, mio padre amava raccontarmi le avventurose imprese di un bandito siciliano, Salvatore Giuliano. Teneva sul comodino dei fascicoli a fumetti che io avidamente leggevo, affascinata soprattutto dalle figure femminili di donne bellissime dai lunghi capelli ondulati che nelle ricche case di conti e marchesi, aspettavano il terribile bandito per una notte d’amore.
Mio padre ammirava il personaggio dei fumetti più che il vero protagonista e mi diceva convinto che, se non l’avessero ammazzato a tradimento, forse la Sicilia avrebbe avuto una storia diversa. Giuliano stava organizzando un’intesa con i politici americani e forse noi siciliani saremmo diventati tutti Americani!
I magici incantesimi della mia infanzia erano alimentati anche da detti proverbiali, filastrocche, preghiere e racconti popolari.
C’era un motto per ogni avvenimento ed una preghiera giusta per le varie situazioni in cui ci si veniva a trovare.
Più che il testo di ciò che veniva pronunziato era il rituale la cosa più importante. Un rituale arcaico che si ripeteva da generazione in generazione e a cui quelle persone semplici credevano in modo incondizionato, ritenendo saggio ciò che veniva dal passato ed aveva tracciato la via del loro sapere .
Se al mattino mi gingillavo senza fare nulla e non avevo alcuna voglia di studiare, la nonna mi diceva: “La matinata fa la jurnata!” Voleva dire: “Se non studi di mattina, non ti verrà più la voglia di studiare e perderai la giornata!” E così presi l’abitudine di svegliarmi presto al mattino e di ripassare le lezioni della giornata con la mente lucida, riuscendo a rendere più di ogni altra ora del giorno.
Guai se non avevo voglia di mangiare! Mi si diceva: “Saccu vacanti ‘un po’ stari a l’addritta !” Equivaleva a dire: “Chi ha la pancia vuota non può stare all’impiedi!”
Non avrei potuto affrontare una giornata di studio e di lavoro con il sacco della mia pancia vuota!
Quando testardamente mi rifiutavo di fare qualcosa, mia madre mi diceva: ”La testa è chidda ch’un senti !” e, se disturbavo, mi gridava: “Nun rumpiri l’ova na lu panaru!” (rompere le uova nel paniere era un grosso fastidio, certamente!)
Si parlava a volte in famiglia di qualche ragazza nubile che non riusciva a trovare marito, allora invariabilmente si diceva: “Seri, seri, chi bedda ventura veni!”, cioè bisogna avere pazienza, sedere per l’appunto, perché la buona sorte sarebbe arrivata,prima o poi.
Simpatiche erano anche le filastrocche cantilenate, che assumevano a volte l’aspetto di vere e proprie formule di incantesimo.
La preghiera per San Vito, protettore della città di Mazara, era un’invocazione magica in caso di pericolo e faceva riferimento ad un’antica credenza che voleva il Santo trionfatore percorrere le strade della città di notte per difenderla dagli attacchi nemici. Qualcuno aveva visto di notte un cavaliere misterioso su un cavallo bianco. Certamente si trattava di San Vito!
La poesiola diceva così:
Santu Vitu di Mazzara,
cu lu vrazzu n’arripara
e a lu populu devotu
scansa guerri, tempesti
e terremotu!”



Il 13 dicembre, per la festa di Santa Lucia, dovevamo astenerci dal mangiare pane e pasta per tutta la giornata, si mangiava solo “cuccia”, cioè grano addolcito con “vino cotto”, che dava al cereale un gradevole sapore dolciastro.
Santa Lucia era la Santa protettrice degli occhi ed io avevo molta paura di rimanere cieca, se avessi trasgredito la regola!
Mia madre mi faceva ripetere così:
Santa Lucia, la virginedda
tutta pura e tutta bedda
la grazia nn’havi a fari
la vista di l’occhi nn’havi a guardari
!”

Solo così avrei potuto, preservando la vista, continuare gli studi, unica cosa importante per la mia vita.
La messa in scena recitata come orazione fatta ogni sera prima di andare a letto dalla zia Nicoletta, nella cui casa andavo a dormire per farle compagnia, era la cosa più bella a cui mi toccava assistere.
La zia prendeva in mano il grosso mazzo di chiavi , simbolo del suo potere casalingo dopo la morte del marito, poi cominciava a chiudere la porta che dava all’esterno, sulla strada, ripetendo così:
Iu chiuru la porta mia
cu lu mantu di Maria
lu vastuni di San Simuni
ascippa l’occhi a li mali persuni
e cu voli mali a mia.”
nun po’ attruvari né porta e mancu via
.”

( Io chiudo la mia porta mia
con il manto di Maria,
il bastone di San Simone,
strappa gli occhi alle cattive persone
e chi mi vuole male
non potrà trovare né porta né via.)

Dietro questa filastrocca si nascondeva la storia di una ragazza (“Fatto vero!”- diceva la zia), che viveva da sola perché orfana e, per la sua bellezza, era oggetto di attenzione da parte di molti uomini.
Ad uno di costoro, particolarmente cattivo, venne un gran desiderio di possedere la ragazza e così, dopo aver visto il posto in cui abitava, vi si recò a notte fonda con l’intenzione di farle del male.
Ma, per quanti sforzi facesse, non riusciva mai a trovare la porta della casa della ragazza. Al posto della porta, trovava un muro.
La zia Nicoletta mi diceva che la ragazza, ripetendo la filastrocca che ho riportato sopra, diventava immune da ogni male ed attirava su di sé la protezione di Maria che la copriva con il suo manto e quella di San Simone dal bastone infuocato.
La zia era convinta anche lei che la filastrocca-preghiera la proteggesse ed io mi divertivo a stuzzicarla dicendole che non poteva essere credibile che la porta diventasse muro.
Quando poi ci mettevamo a letto, nel suo lettone matrimoniale che profumava di lana di pecora e dove chi si coricava sprofondava nell’incavo formato dal proprio corpo, cominciava la lunga serie delle litanie o “cose di Dio”.
Mi sembrava di assistere ad una rappresentazione sacra dove i personaggi rievocavano scene tratte dai vangeli, miracoli, apparizioni prodigiose, con l’articolazione di rime a volte anche monotone, ma sempre espressione di un particolare senso di religiosità e di una specifica cultura.
Mi addormentavo stanca, convinta nel mio intimo che tutti i personaggi menzionati avrebbero protetto il mio sonno di bambina.
Per la mia vita da scolara ci avrebbe pensato Pinuzza Cusenza, una bambina morta in odore di santità che, a detta della nonna, proteggeva gli studenti.
Andavo a scuola con il santino che la raffigurava in tasca e, quando venivo interrogata dall’insegnante, lo stringevo ben bene fra le mani.
Nelle sere d’estate era abitudine diffusa presso i miei concittadini quella di sedersi fuori, all’aperto, nelle vie sgombre di macchine e ottimo parco-giochi per noi ragazzi che, stanchi di rincorrerci, finivamo col metterci anche noi nel circolo degli adulti per ascoltare storie fantasiose di mostri, fantasmi, gnomi, folletti e tutta una serie di personaggi fantastici.
Parenti e vicini di casa insieme ridevano e scherzavano allegramente, dimenticando le ultime disavventure della guerra e alla ricerca di un po’ di serenità.
A volte ci raggiungeva un signore che, fra lo stupore generale, era capace di decantare a memoria interi canti dell’Orlando furioso; ricordo anche una incredibile signora che veniva da Palermo capace di indovinare l’ora esatta in qualsiasi momento, senza avere l’orologio.
Molto strana era anche una donna, di nome Vitina, insofferente al colore giallo. Se intravedeva, anche da lontano, qualcuno con un indumento giallo, si avvicinava di botto e strappava l’oggetto che le dava fastidio, incurante del male che poteva arrecare al malcapitato di turno.
Un giorno, vedendo aperta la porta, entrò come un fulmine a casa mia e strappò dal balcone i fiori gialli che erano cresciuti nei vasi.
Nella mia città il personaggio più strano che ancora oggi viene ricordato con simpatia era l”omu-cani”. Si trattava di un barbone che aveva scelto di vivere ai margini della società, sulla strada e sotto i portici di piazza della Repubblica. Non accettava nulla da nessuno, mangiava quello che trovava nella spazzatura e fumava le cicche delle sigarette che i miei concittadini buttavano per strada. Noi bambini non avevamo paura di lui, anche perché non parlava con nessuno e non faceva del male, semplicemente aveva scelto un modo di vivere un po’ inusuale.
Mio padre buttava in terra le sigarette e gli dava modo di fumare, poi lo salutava affettuosamente chiamandolo “Tommaso”.
Dopo la sua morte, cominciò a circolare la voce che il personaggio misterioso che aveva soggiornato a Mazara per anni poteva essere nientedimeno che lo scienziato Ettore Majorana, scomparso negli anni proprio nello stesso periodo in cui il misterioso “omu-cani” aveva cominciato a circolare per le vie della città, molti furono i sostenitori di tale tesi, ma la cosa non fu mai chiarita. Tommaso, “omu-cani”, è ancora oggi uno dei personaggi più strani che io abbia conosciuto.
Molti erano i luoghi della città che erano considerati magici . La via detta “della figurella” o “la strata di lu ecu”, dell’eco, era la più incredibile e simbolica espressione del religioso e del profano uniti insieme, in una elaborazione popolare fantastica e per certi versi misteriosa.
Ci si recava in questa via al mattino, dopo aver recitato continue preghiere per tutto il tragitto dalla propria casa, si formulava mentalmente un interrogativo su ciò che si voleva sapere, qualcosa che poteva riguardare sia il proprio che l’altrui destino, poi si proseguiva lentamente prestando religioso ascolto ad ogni minimo rumore, alle parole pronunciate dagli abitanti del luogo, agli animali ostili che avrebbero potuto scagliarsi contro; tutto poteva essere significativo e profondamente carico di una nascosta simbologia.
Una delle mie zie, quando non aveva notizie del marito lontano, mi prendeva per mano e mi faceva partecipare al magico rituale.
Se sentivamo delle voci che dicevano: “Bonu stà, nun ti preoccupari!”, oppure “ora veni, ora veni!” o qualcosa di simile, la zia tornava a casa rasserenata, sicura che il marito stava bene e presto sarebbe tornato.
Ma se per caso un cane ci abbaiava dietro, affrettavamo il passo verso la via del ritorno, convinte che c’era qualcosa che non andava.
Oggi si è perso completamente il ricordo della strada dell’eco. Vi soggiornano, nelle ore pomeridiane, bande di ragazzini con i telefonini accesi che, certi del loro presente, non hanno bisogno di interpellare voci lontane per avere informazioni e consigli.
Tra i luoghi religiosi misti di sacro e profano, c’erano le chiese dell’immediato circondario, alcune delle quali dedicate alla Madonna ma con nomi diversi, c’era la Madonna del Paradiso, la Madonna dell’alto e la chiesa di Santa Maria di Gesù.
Ad ognuna di queste chiese era dedicata una particolare festività a cui si partecipava in massa, essendo anche occasione di svago e divertimento.
Chi riceveva una grazia particolare dalla Madonna del Paradiso si impegnava ad accompagnare, a piedi scalzi, il quadro della Madonna miracolosa nella solenne processione che si svolgeva e si svolge tuttora il secondo mercoledì del mese di luglio. Ci si impegnava anche ad indossare un vestito particolare di colore celeste somigliante, nella forma, ad una ampia tonaca, stretto in vita da un cordone bianco.
Dal balcone di casa mia vedevo sfilare la lunghissima processione, avvertivo forte l’odore dei ceri accesi, lunghi quanto era lunga la persona che li teneva in mano, e dicevo a me stessa che la Madonna era veramente brava a fare i miracoli, ma il miracolo più grande era il fatto che tanta gente riusciva a camminare senza scarpe, a piedi nudi, sull’asfalto unto di cera.
Presso la chiesa della Madonna dell’alto ci recavamo la sera del ferragosto. A piedi, ridendo e scherzando, percorrevamo la lunga strada rettilinea che conduceva nella chiesetta normanna; poche preghiere questa volta, si trattava solo di semplice divertimento.
E così era per divertimento che il lunedì di Pasqua ci recavamo a frotte a “Miragliano”, un fantastico luogo roccioso nei pressi della chiesa di Santa Maria di Gesù, dove devotamente ci fermavamo a pregare.
Facevamo merenda fra le rocce mangiando patate bollite ed uova sode, e mentre noi ragazzi andavamo ad esplorare le grotte vicine, i grandi ci dicevano di stare attenti perché in una di queste grotte una volta si erano dispersi sette seminaristi . La grotta era stata chiamata “grotta di li setti parrini”; se ne conosceva l’entrata e non l’uscita.
Intanto il tempo passava lento ed inesorabile; apparentemente sembrava che tutto fosse sempre uguale, in realtà, la mia vita e quella dei componenti la mia famiglia subiva le trasformazioni proprie della società in continua evoluzione.
Quando anche a Mazara arrivò la televisione, fu l’apertura verso nuovi orizzonti. Non più personaggi creati con la fantasia, non più fatti selezionati e proposti dai nostri lontani progenitori con una lingua limitata alla cerchia di noi Siciliani, ma storie somministrate da un potere lontano, in una lingua che non ci apparteneva ma che era l’unica possibile per tutti.
Riuniti attorno all’apparecchio televisivo, oggi abbiamo sostituito le fantasie e le letture dell’infanzia con telefilm, fiction e fumetti animati, mentre abbiamo permesso a cantanti, attori e divi del calcio di guidare le nostre giornate e riempirci la testa con i loro scoop.
Entrata nel mondo degli adulti, mi capitò per qualche tempo di contestare personaggi e luoghi della mia giovinezza; amavo il nuovo, il moderno, l’innovazione foriera di epocali cambiamenti.
Dietro la mia apparente modernità però finivo col ritrovare sempre il romanticismo dell’infanzia e la formazione un po’ fatalistica che aveva dato origine alla mia cultura.
Sono trascorsi parecchi anni dai fatti appena raccontati e con essi è trascorsa la mia gioventù, insieme alla ingenuità ed alla spensieratezza che la caratterizzavano.
Oggi vivo ancora nella stessa città dove nulla è così radicalmente cambiato che non si potrebbe, volendo, riconoscerle l’aspetto di allora; ma sono mutati gli uomini e le cose mentre le vicende, se pure a volte simili a quelle di un tempo, non ne hanno certo lo stesso carattere.
Così, per un momento, mi volto ancora a guardarle e cerco di capire perché continuano ancora a lanciarmi i loro messaggi, a parlarmi di semplicità, di poesia, di valori, in una realtà divenuta ormai difficile anche in questo profondo sud.
Sfogliando il libro dei ricordi, mi ritrovo a fare i conti con me stessa, ad ordinare le cose nel loro spazio e nel loro tempo e, come per una precisa simbolica corrispondenza fra passato e presente, rivedo netto il mio personale percorso di vita: da bambina a donna.

giovedì 25 dicembre 2008

SUOR DOLORES

Suor Dolores



Ogni volta che guardo un suo quadro appeso sulla parete della mia casa, mi ricordo di lei, della piccola suora con la passione per l’arte pittorica, Suor Dolores. Se oggi dovessi ricostruire alcuni momenti della mia storia personale, soprattutto quella riguardante il periodo di tempo che va dai miei quaranta ai cinquanta anni, non c’è personaggio che possa avermi influenzato più di lei, escludendo naturalmente i miei familiari più stretti.
Nella stanzetta, da lei chiamata bugigattolo, in cui trascorreva buona parte del suo tempo, Suor Dolores dirigeva le sue attività caritatevoli e riceveva chiunque avesse avuto bisogno di consigli, di frasi gentili, di parole affettuose. Tutta la sua persona mostrava a grandi linee che Cristo era al centro di quel frammento di storia e di mondo in cui si trovava collocata.
Dipingeva, pregava, ascoltava e si occupava dei problemi di chi aveva bisogno, soprattutto degli extracomunitari.
Erano tempi in cui erano ancora pochi gli extracomunitari che approdavano nella nostra città e la gente mostrava molta diffidenza nei loro riguardi. Solo le suore del Sacro Cuore, a cui apparteneva Suor Dolores, erano disponibili all’ascolto e riuscivano anche a dare un aiuto concreto di cibo e la possibilità di usufruire, per brevi periodi, di una stanzetta indipendente che apparteneva alla struttura del monastero.
Suor Dolores era l’artefice di tutte le opere di carità che potevano essere fatte in quel dato momento storico.
Telefonava a casa mia in qualsiasi momento, sicura che l’avremmo aiutata a risolvere i problemi che ci sottoponeva di volta in volta.
Una volta ci chiamò a tarda sera per dirci che aveva visto due ragazzi dormire su cartoni accanto alla porta del monastero.
Occorreva intervenire subito- ci disse- perchè come cristiani non potevamo permettere una cosa del genere.
Mio marito la tranquillizzò e le disse che sarebbe andato a verificare la cosa. Si trattava di due giovani marocchini, Omar e Driss, clandestini e senza dimora. Furono sistemati alla meglio e la preoccupazione di suor Dolores diventò anche la nostra.
E che dire di quella famiglia di nomadi slavi , con quattro piccoli bambini, che vagabondavano per le strade di Mazara?
Non c’è tempo da perdere,- ci disse Suor Dolores- dobbiamo dare un tetto a questa famiglia. E così , dietro i suoi consigli,insieme ad alcune famiglie della città cominciammo a dare il via agli aiuti, alla ricerca di un posto dove farli dormire, ai vestiti per i bambini, al cibo ed a tutto ciò che ritenevamo necessario.
Suor Dolores voleva il nostro aiuto , ci diceva spesso che Cristo è nel povero, in quella umanità sofferente di cui la piccola suora non riusciva a disinteressarsi. Il libro che la ispirava di più in tutte le sue azioni era “ L’imitazione di Cristo”, di cui volle regalarmi una copia con dedica.
Mi diceva spesso: ”La Provvidenza di Dio si serve anche di te. Rimetti tranquillamente a Lui quanto non riesci a comprendere. Iddio non ti inganna. “
E, nei momenti di difficoltà, mi ripeteva: “Ricordati che il nostro Padre sa di cosa abbiamo bisogno, Egli non abbandona mai i suoi figli. Rifletti piuttosto sulle cose buone che Dio ha voluto donarti e non lasciarti abbattere mai troppo dalle circostanze della vita perché spesso quello che per lungo tempo non ha concesso, Dio lo concede in un breve istante.”
Per me era diventata una bella consuetudine quella di recarmi a salutare Suor Dolores ogni volta che mi ritrovavo con del tempo libero. Mi faceva accomodare nel suo stanzino, mi mostrava gli ultimi lavori di pittura,”scarabocchi” li definiva , poi chiedeva notizie dei miei figli e sempre riusciva a dirmi qualcosa di buono da custodire gelosamente nel cuore.
Mi parlava anche della sua vocazione, della sua dedizione alla Madonna e mi regalava le sue piccole cose, santini, giornali e riviste che conservava apposta per me, con le frasi più incisive segnate bene a matita.
Purtroppo, con l’età, anche di suor Dolores s’impadronì quel terribile mostro chiamato Alzheimer .
Cominciò a dimenticare avvenimenti e persone e, coricata nel suo letto con il rosario fra le mani, mi chiamava “signora” e sosteneva di non conoscermi.
A distanza di qualche anno dalla sua morte , conservo ancora in me i suoi insegnamenti e , affrontando le difficoltà della vita, mi capita spesso di pensare:cosa mi direbbe in questo momento Suor Dolores ?


Mariagrazia Vitale

lunedì 15 dicembre 2008

FIGURE DI DONNA: CARMELA

FIGURE DI DONNA: CARMELA


Tiene in una mano una fetta biscottata mentre, con l’altra mano,cerca di spalmare della marmellata servendosi di un coltellino di plastica bianca.
E’ intenta a compiere la sua operazione come se fosse la cosa più importante della sua vita. Guarda la sua fetta resa lucida dalla copertura tremolante di marmellata e sospira: “Da quannu sugnu all’ospidali,mi attuppà la fami!”
“Si sforzi, signora Carmela, mangi qualcosa !” le dico avvicinandomi a lei ,
anche per scambiare due chiacchiere e trascorrere i tempi morti delle giornate trascorse in ospedale, tra lamenti di malati e bottiglie di flebo che penzolano sui letti.
Seduta sul bordo della sedia, come se dovesse alzarsi da un momento all’altro, Carmela fa cenno di avvicinarmi, vuole raccontarsi, parlare delle sue cose, del passato,dei figli, dei nipoti,della sua vita di oggi e di ciò che farà dopo, quando uscirà dall’ospedale.
“La mia malattia è che il colon e un rene si toccano e si infiammano. Questa è tutta la malattia. Mi dissero che domani mi faranno la colascopia, la cosa scopia, insomma mi devo bere quattro litri di acqua, ma come si fa?”
Comincia a parlare a ruota libera; le rughe del suo volto si animano, prendono vita, diventano tutt’uno con la bocca che macina parole, pezzi di vita che si ricompongono insieme alla saggezza della gente di Sicilia, fatta di espressioni consolidate nel tempo e ripetute da intere generazioni.
“Iu mai ivi da lu dutturi. Mancu quannu accattava li figghi!”
Partoriva e, il giorno dopo, si alzava dal letto e si metteva a lavorare in casa. Quando stava per nascere il suo ultimo figlio, sentì che era giunta l’ora e disse alla sorella: “Metti l’acqua ‘n capu, chi sta nascennu!”
“ Quattro chila era stu figghiu me e iu sugnu ccà! Ora fannu ecografia, esami e tanti cosi; prima c’era sulu la levatrici!”
Il racconto della nascita dei figli prosegue con altri particolari. Tre figli, tre storie diverse. Uno di questi venne fuori dai piedi. “Chi cosi tinti! L’ostetrica dicia chi stu picciriddu chi stava pi nasciti era un animale!”
“Ma come, un animale!” dissi io tanto per dire qualcosa, anche perché era lei, Carmela, che teneva in mano la conversazione.
“Certo,la levatrice lo toccava per i piedi e non trovava la testa! Basta, anche per questa volta tutto andò bene, il bambino si capovolse da solo e non ci fu bisogno di dottore.”
“ Il giorno successivo al parto- disse ancora Carmela- andai all’ufficio postale a cambiare un assegno di mio marito, perché avevo bisogno di soldi, per la nascita e tutto il resto.”
“Come era suo marito? Era innamorata di lui?”chiesi .
“Mio marito era un bell’uomo. Sembrava un attore “
Si trattò di un matrimonio “portato”. Carmela non lo conosceva, né lui conosceva lei, che aveva solo sedici anni e portava ancora i calzini corti.
“ Un giorno venne in casa mia un conoscente insieme ad un giovanotto , così per fare una visita, dicevano. In realtà, si voleva fare la riconoscenza.” Carmela, quando vide il giovanotto ,rimase favorevolmente colpita e si innamorò subito di lui. Si fidanzarono e si sposarono nel 1950, dopo quattro anni di fidanzamento.
“Un giorno- racconta Carmela- mio marito mi vide piangere e mi chiese perché ero così dispiaciuta. Forse lui non si comportava bene? Forse c’erano problemi che lui non conosceva? Io non riuscivo a parlare, piangevo e basta.
In quel periodo ero incinta di cinque mesi e non sapevo da dove doveva uscire quel bambino che sentivo crescere dentro di me”.
Le chiesi allora perché non ne aveva parlato con la madre o con le sorelle e perché si era tenuta quei dubbi dentro, tanto da piangere in modo così imprevedibile.
“Mia madre era malata- rispose- aveva l’anemia mediterranea.” Se l’era presa per il troppo dispiacere di vedere uno dei suoi figli , un bambino di un anno e mezzo, colpito da meningite.”
“Mia madre non aveva voluto più mangiare e si era ammalata” Toccò a Carmela, sin da piccola, accudire la famiglia e curare i bambini. Per questo motivo non aveva frequentato la scuola. Neanche un giorno di scuola aveva fatto.
“Mi facia la cruci e dicia “Patri, figghiu e Spiritu santu” . Così iniziavo le mie giornate. Faciamu troppu malavita, ora si sta bene e non c’è paragone con la vita che faciamu prima”
Durante la guerra, una “vastedda” di pane doveva servire per giorni e veniva razionato ogni pezzetto di pane, anche duro come pietra perché il pane era una grazia di Dio.
“Quando mio fratellino mi chiedeva un pezzetto di pane, io non potevo resistere. Prendevo la “vastedda” da sotto il materasso, dove la nascondeva mia madre, e gliene davo un pezzetto a me fratuzzo.”
Il frumento veniva pestato con le pietre, si cucinava il farro e si mangiavano fave bollite e “taddi” di broccoli.
Poi, dopo la guerra, le cose cominciarono a migliorare. I marinai ripresero ad andare in mare e, pian piano, la vita migliorò. Però, per un certo tempo, i mari erano pieni di mine e molte barche saltarono in aria con i loro pescatori.
“Tante disgrazie ci furono allora a Mazara . Finalmente, arrivò una nave d’ispezione che tolse tutte le mine dal mare e così le cose migliorarono. I marinai guadagnarono tanto che si fecero case e villini.”
“Insomma- dissi allora a Carmela che , infervorata dai racconti, sembrava aver dimenticato i suoi acciacchi- finita la guerra e con il matrimonio, la vita cominciò a sorriderle o no?”
“Ma quali sorrideri e sorrideri – mi rispose Carmela - i miei guai avianu ancora a ‘ncominciari! A me maritu ci vinni” la giannizza” e morsi a 50 anni.
Iu arristà sula e con un minimo di pensione!”
Le chiesi se fosse andata a lavorare o se avesse cercato aiuti.
“Iu a travagghiari nun ci vulia iri. A li me figghi mi li criscì sula, senza aiutu di nuddru, con un minimo di pensione . Quella avevo e quella mi doveva abbastare.”
“Signora Carmela- le chiesi- oggi la vita è ben diversa da quella della sua giovinezza. Le sembra migliore o peggiore il modo di vivere di noi cittadini mazaresi?”
“Megghiu, megghiu, nun c’è paragoni. Oggi non c’è nuddu chi addisia un pezzu di
pani. La genti va nelle pizzerie e li picciotti mangianu gelati. Iu, con la pensioncina chi mi duna lu guvernu,cinquecento euro al mese, sugnu tranquilla e nun dugnu nociu a li me figghi.”
“Cosa può fare con cinquecento euro?” chiedo allora con curiosità.
“Io ci mangio, pago le bollette di luce e faccio anche qualche regalino ai miei nipoti, per le cresime e li compleanni.Proprio ora finì di aggualarici cinquecento euro a mia nipote che si avi a maritari. Pi la tredicesima mi accatto li robi pi lu matrimoniu. Mi li accattu di Spina, ddà mi servu sempri.”
L’arrivo dell’infermiera di turno interruppe la conversazione. Carmela mi fece tanti auguri per la salute della mia mamma e mi disse abbracciandomi: Ricordati, tutto quello che si fa per i genitori, ci sarà ricompensato prima o poi!”

AGONIA

Lente le ore d'attesa
dell'affannoso trapasso.
Silenzi,respiri profondi,
lamenti.
Dai mobili tubi
di plastica,
stanche appendici del corpo distrutto,
passano umori segreti
liquidi gialli e verdastri.
Piccola tremola
goccia di pianto
è l'unica forma di vita.


Mariagrazia Vitale 28 settembre 2008