venerdì 4 gennaio 2013

Salvatore, il mazarese.

Ritornando a casa, aveva percorso la strada sorridendo. Tutto gli sembrava bello, ogni cosa sembrava avere un fascino misterioso, nuovo, mai avvertito. Da dove gli veniva quella voglia di camminare con testa alta e sguardo fiero ? e la voglia di lasciar andare le cose spiacevoli per fermarsi ad osservare solo il lato bello della vita? Era da poco che aveva mutato la sua visione del mondo. Luigi, il suo amico sognatore gli aveva fatto scoprire un aspetto diverso della vita. A che serve, gli aveva detto, lamentarsi di continuo e dire che non c’è niente che funziona nel tuo paese, nella tua nazione, nel mondo? Fermarsi a vedere solo il lato negativo delle cose porta inevitabilmente a determinarne la loro continuazione. Il mondo, in fondo, non è altro che la proiezione della nostra coscienza. Se esiste la guerra è perché noi uomini siamo d’accordo che ci sia la guerra e la nostra coscienza non vi si oppone. Se esiste il commercio delle armi è perché noi abbiamo accettato che vi sia. Se vi è distruzione dell’ecosistema è perché noi lo abbiamo accettato. Il mondo intorno a noi non è altro che il nostro accordo collettivo. La nostra storia, ossia la storia che noi ci raccontiamo come individui e come collettività, è direttamente in relazione alle nostre intime intenzioni. Salvatore all’inizio si era ribellato aspramente e contestato le affermazioni dell’amico. Ma che mi vieni a raccontare? Io sarei responsabile di tutte le porcherie che combinano gli altri? Sono una persona corretta io e ho sempre avuto le mie idee . Piuttosto dobbiamo dire che ci è toccato di vivere in un mondo sbagliato. Un mondo dove la gente pensa solo al proprio tornaconto, non rispetta i suoi simili e non ha il minimo rispetto per l’ambiente in cui vivranno le generazioni future. Va bene, gli diceva Luigi, occorrerebbe un grosso cambiamento. Ma da dove partire per cambiare il mondo? Da noi stessi, dobbiamo partire da noi stessi. A questo punto, Salvatore si arrabbiava e lasciava la compagnia dell’amico. Fu in un momento di crisi che si ricordò della parola “cambiamento”. Un forte dolore al petto e la paura dell’infarto lo portarono a riconsiderare le parole di Luigi. Cambiare, cambiare. Come si fa a cambiare a sessant’anni? Dopo una vita trascorsa in un certo modo, a criticare tutto e tutti, a cercare sempre di imporre le proprie idee senza dare agli altri la possibilità di controbattere, una vita da arrabbiato, da deluso, una vita in cui anche i pochi momenti di serenità erano stati velati dall’insofferenza verso tutti. Come si può ora intraprendere un percorso diverso? Dobbiamo sempre ricordarci che dentro di noi esiste un grande potenziale, gli disse allora Luigi quando lo andò a trovare in ospedale e che, quando vi accediamo, la nostra biologia reagisce in modo positivo. Occorre rimettersi in discussione ,cercare di sentirsi bene dentro e togliere di mezzo preconcetti e falsi moralismi. Allora era iniziata per Salvatore una specie di verifica. “Cosa ho imparato nei miei primi sessant’anni? E perchè ho creato l’infelicità attorno a me?” si chiedeva. Che avesse creato l’infelicità era un dato di fatto. La moglie l’aveva lasciato per andare a vivere in una città del nord. "Non ti sopporto più- gli disse un giorno- vado a fare la donna di servizio, la bidella, la sguattera, ma voglio riprendere in mano la mia vita!" " Tu non vai da nessuna parte!- disse lui - non ti azzardare a uscire da questa casa !" Lei invece era uscita. Libera e felice era uscita per non tornare più. Non era la donna per me, aveva allora detto lui. Troppi grilli per la testa. La donna deve sottostare al marito, ubbidire e tacere. Ora , dopo tanti anni, riconosceva i suoi errori. Ho sbagliato con Maria. Non dovevo comportarmi in quel modo. Come posso alla mia età riparare ai danni commessi ? Quando salì le scale di casa, in quel centro storico in gran parte disabitato, gli ritornò per un attimo l’idea della sua solitudine. Un tempo in quel grande caseggiato avevano abitato tante famiglie. Si poteva ancora intuire in che modo avevano vissuto gli abitanti della casa. Tutti insieme, in promiscuità, senza spazi privati da rispettare. Le donne sedevano giù nei piccoli cortili interni e lavoravano all’uncinetto, i bambini giocavano tranquillamente e, se avevano voglia di spazi liberi, si trasferivano nella piazzetta vicina dove tiravano calci ad una palla di pezza. Poi era cambiato tutto. Gli abitanti del centro storico, in seguito al terremoto che aveva colpito la valle del Belice,avevano abbandonato le loro case per andare a vivere in periferia. La via Porta Palermo era rimasta disabitata. I negozi erano stati chiusi e le case abbandonate. Un tempo quella era la strada del passeggio. Anche Salvatore, con gli amici di un tempo, aveva camminato per quella via discutendo e chiacchierando. Di che? si chiedeva ora. Ai tempi della sua trascorsa giovinezza si era soliti fare il giro, cioè percorrere passeggiando il perimetro attorno alla città. Si partiva da un punto qualsiasi , dalla piazza o dal corso e, finito il giro, ci si ritrovava nello stesso punto di prima. Era così bello “fare il giro”! La formula dialettale era appunto quella. Si diceva “fare il giro” per dire facciamo una passeggiata insieme, distraiamoci, usciamo fuori dai nostri pensieri. Ora però, quando Salvatore tornava a casa, incontrava solo Tunisini. Nel pomeriggio, intorno alle cinque, nell’aria stanca che precede la sera, si sentiva il loro invito alla preghiera e sembrava di essere in un paese arabo. Per Salvatore era stato solo un lamento noioso. Non sopportava l’idea che gente di altra razza e altra cultura fosse venuta ad abitare e contaminare il suo quartiere. Qui hanno vissuto i nostri antenati, diceva, c’è la nostra storia, le nostre radici di popolo siciliano, perché dobbiamo ascoltare i loro suoni? Quando sentiva la voce del muezzin diffondersi con l’altoparlante, saliva in terrazza e cercava di scorgere, attraverso i tetti, la fonte del rumore. Guardava con un binocolo e scrutava i terrazzi, tutti in fila, l’uno dietro l’altro, così attaccati fra loro come un unico grande spazio che si poteva percorrere camminando sui tetti delle case. Il terrazzo della sua casa era tutto cementificato. La casa era stata ristrutturata, erano state fatte le fondamenta, ripreso il prospetto e rimesso a posto l’androne da cui si partiva la scala di marmo che separava i vari appartamenti. Gli abitanti della casa, di comune accordo, avevano deciso di ristrutturare l’edificio ma gli appartamenti erano rimasti desolatamente vuoti. Camminando su tetti e terrazzi si poteva però arrivare in case diverse, case da cui si entrava da una strada diversa. Dopo aver cenato da solo , Salvatore sentì il bisogno di conversare con qualcuno. Salì in terrazza e chiamò: << Jemila !>> Jemila, la donna tunisina che abitava nella strada parallela alla sua ma raggiungibile attraverso i tetti ed i terrazzi , aprì la porticina del suo minuscolo appartamento e sporse la testa. "Signor Salvatore, ha chiamato?" "Si, volevo sapere come sta tuo figlio ! avevi detto che stava male." " Grazie, grazie ! sta un po’ meglio ora. Lei molto gentile!" " Ha qualche problema con la scuola ? Ha perso tanti giorni di studio. Fallo venire da me, lo aiuto io. " Salvatore, il mazarese , si sentiva ormai amico di tutti e disposto ad aiutare chi aveva bisogno. Era questo il cambiamento di cui gli aveva parlato il suo amico Luigi. Il cambiamento voleva dire anche apertura di cuore ed era anche un modo per sentirsi meno soli.

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