mercoledì 31 dicembre 2008

Da bambina a donna : sulla scia dei ricordi

Sono nata in una cittadina dell’estremo sud della Sicilia occidentale, Mazara del Vallo.
Oggi il nome della mia città è negativamente associato alla mafia, alla delinquenza, allo spaccio della droga o ancora alla recente scomparsa di una bambina di quattro anni di nome Denise; in positivo, Mazara viene ricordata per il porto peschereccio, per il pesce pregiato o per il rinvenimento in mare del Satiro danzante.
A me piace molto la mia città e, durante il corso dei miei sessanta anni, ho sempre cercato di conoscerne la storia, rievocare immagini del passato e ricostruire pezzi di vita lontani nel tempo.
Sin da piccola, ascoltando i ricordi di chi mi viveva accanto, creavo dentro di me delle immagini mentali e in esse mi compiacevo fantasticando su un passato che era presente perché chi lo aveva vissuto era lì, accanto a me, pronto a darmi le spiegazioni che la mia curiosità di bambina voleva richiedere.
Mi attiravano molto, fra le altre, le storie che riguardavano i primi anni del secolo appena trascorso, il mondo dorato della “belle epoque”, quando anche nella mia città si incontravano donne dai lunghi fruscianti vestiti e cavalieri con cilindro e bastone. Lungo la via che da bambina percorrevo ogni giorno, la via Garibaldi, detta un tempo “maestranza”, cioè via Maestra, e nella piazzetta in cui essa sfociava, piazza “Chinea”, si trovavano botteghe ricche di ogni mercanzia; le giovani,accompagnate da donne più anziane ricoperte da lunghi scialli neri, acquistavano stoffe e merletti per preparare il loro corredo da spose ed aspettavano che l’amore bussasse alla loro porta. Chi bussava era poi una sensale di matrimonio, ”la mezzana”, una donna che proponeva il buon partito ed elogiava le virtù dell’uomo di turno, serio e soprattutto “granni travagghiaturi” (buon lavoratore).
Con la fantasia anch’io entravo ed uscivo da quelle botteghe e giocavo a vendere e comprare , avvolta in vestiti lunghi fino ai piedi e dandomi l’aria da gran dama.
Quando poi la nonna descriveva i concerti, “trattenimenti”, che si tenevano nella villa comunale nelle calde ed afose serate d’estate, davo sfogo alla fantasia immaginando dame gentili e un po’ civettuole che agitavano i loro ventagli con foga nascondendo il rossore quando la conversazione con i cavalieri diveniva un po’ più piccante.
Il racconto più divertente di quei lontani anni di primo Novecento era per me quello del bagno in mare.
Poichè l’abbronzatura significava fatica e lavoro sotto il sole, le donne del tempo, preferendo conservare il niveo candore simbolo del loro benestare, si recavano ai bagni di sera, al buio, quasi sempre nascostamente, badando bene a non farsi riconoscere.
Chiedevo allora alla zia, sorella della nonna: “Avevate il costume?” “Non ce n’era bisogno - rispondeva la cara zia Nicoletta - noi donne usavamo un grembiule che ci proteggeva davanti, dietro non occorreva protezione, il sedere l’abbiamo tutti uguale, sia uomini che donne!”
Ridevo e chiedevo alla zia altre storielle, volevo conoscere a fondo la realtà in cui si erano formate le generazioni precedenti alla mia, indagavo su persone e luoghi, ero curiosa del passato.
E’ così che imparai quale terribile cosa fosse la guerra e di come avesse portato dei cambiamenti nel modo di vivere dei miei concittadini; molti giovani erano andati a combattere lontano, ai confini d’Italia, e nelle famiglie scarseggiava la mano d’opera.
Moltissimi erano poi gli emigranti che si imbarcavano per raggiungere l’America e mio nonno era stato uno di loro.
I racconti di mia nonna Francesca riguardavano sempre la sua storia personale, la partenza del marito alla volta dell’Argentina, i sacrifici per acquistare una casa ed infine la sua scomparsa nel nulla.
Di mio nonno infatti si persero completamente le tracce nel 1933, dopo aver scritto nell’ultima sua lettera: ”Era meglio che non avessi venuto qui, na sta disgraziata America!”
La nonna mi mostrava le lettere che conservava gelosamente avvolte in un nastrino di velluto, mi mostrava la foto del marito e mi raccomandava di studiare perché per i poveri c’è sempre in agguato un brutto destino.
I racconti della nonna mi rattristavano per la difficoltà ad entrare nei panni di una persona che si era smaterializzata in un paese straniero di cui nessuno poteva parlarmi; mi piaceva moltissimo invece sentire i fatti accaduti durante il ventennio fascista.
Mussolini ci faceva stare tranquilli, mi diceva con entusiasmo mio padre, non c’erano ladri in giro e a Mazara si stava con le porte aperte!
Non mi piaceva il fatto di stare con la porta aperta ma, pur di ascoltare le storie di quei tempi, ero disposta anche a passare sopra le mie paure di animali che potevano entrare in casa e infilarsi sotto i letti!
Le parate in piazza, le sfilate in divisa, le canzoni patriottiche, gli sventolii delle bandiere, tutto era bello per i giovani dell’epoca.
Durante un ballo di carnevale in maschera, mio padre vide una giovane avvolta nella bandiera tricolore, mia madre, e fu subito Amore. La bandiera, per un ardente fascista come mio padre, aveva fatto certamente colpo ma mia madre, oltre ad essere anche lei innamorata del Duce, era molto carina!
Anche quando fu costretto a partire per l’Africa per assecondare il progetto coloniastico di Mussolini, mio padre continuava a difendere il suo Duce.
Mi faceva ascoltare un vecchio disco su cui era incisa la voce del dittatore che parlava pomposamente della nascita dell’Impero e mi diceva che era un peccato che le cose poi erano andate a finire così male.
Nei racconti di mio padre c’erano i nomi di alcune città africane che sono rimaste scolpite nella mia memoria, Tripoli, Bengasi, Sidi el Barrani, e poi El Alamain, ad 80 chilometri da Alessandria d’Egitto.
Quest’ultima città era una pietra miliare nei ricordi di mio padre perché, in seguito alla clamorosa sconfitta subita dal nostro esercito, sconfitta dovuta anche alla sproporzione degli armamenti, fu preso prigioniero dagli Inglesi e portato addirittura in Australia.
A questo punto iniziava la serie di ricordi da prigioniero, la fame patita, gli stenti ed il pensiero fisso alla fidanzata lontana.
Quando non volevo mangiare qualcosa, papà diceva che lui, in tempo di guerra, avrebbe dato chissà cosa per avere un po’ di cibo e che un giorno, nel suo accampamento, era sparita perfino una grossa patata usata dagli Inglesi per chiudere un tombino. Qualcuno l’aveva mangiata!
Tra i suoi ricordi c’era anche una incredibile caccia alle mosche che veniva fatta dai prigionieri di guerra. Vinceva un pasto chi riusciva ad uccidere più mosche.
Quando finalmente papà potè tornare in Italia, le disavventure continuarono perché il viaggio di ritorno da Napoli, dove era sbarcato, fino in Sicilia durò addirittura due mesi, dato che non si trovavano più in giro mezzi di trasporto.
Aiutandosi in ogni modo e percorrendo a piedi interi tratti, mio padre potè finalmente rientrare a Mazara e riabbracciare la fidanzata che, novella Penelope, lo aveva atteso per anni.
In quegli anni di guerra e di bombardamenti, la mia città era completamente cambiata. Il racconto delle peripezie e dei disagi durante la seconda guerra mondiale veniva fatto comunemente dalle mie zie, le sorelle della mamma, che mi parlavano di “sfollamenti”, abbandono delle case per rifugiarsi nei casolari abbandonati di campagna.
Sentir parlare della mia città deserta, priva di vita, mi dava una gran tristezza, vedevo cani randagi percorrerla in lungo e largo, sentivo il rombo degli aerei che sorvolavano il nostro cielo e mi sentivo stringere il cuore.
Poi mi dicevano che una bomba era caduta sulla casa della zia Nicoletta dividendola in due parti distinte.
La parte distrutta della casa era là, ben visibile ancora durante la mia infanzia; anzi, una delle stanze su cui era caduta la bomba era divenuta, con il tempo, un giardinetto dove cresceva rigoglioso un bellissimo albero di nespole.
Giocavamo alla guerra con i miei cugini e buttavamo bombe di carta sul giardino incolto, mentre mangiavamo le nespole ed usavamo i noccioli come proiettili.
Con l’arrivo degli Americani le cose poi erano cambiate, mi dicevano gli zii.
Dall’alto delle jeeps, i soldati americani buttavano scatolette di carne e cioccolata, mentre i miei concittadini facevano ritorno tristemente nelle loro case abbandonate.
La storia degli anni della prima metà del Novecento era per me viva e reale; più tardi la ritrovai nei libri di scuola e la riconobbi subito, avendola appresa da bambina con il semplice racconto di vite vissute.
Sempre riferendosi a quegli anni di guerra e dopoguerra, mio padre amava raccontarmi le avventurose imprese di un bandito siciliano, Salvatore Giuliano. Teneva sul comodino dei fascicoli a fumetti che io avidamente leggevo, affascinata soprattutto dalle figure femminili di donne bellissime dai lunghi capelli ondulati che nelle ricche case di conti e marchesi, aspettavano il terribile bandito per una notte d’amore.
Mio padre ammirava il personaggio dei fumetti più che il vero protagonista e mi diceva convinto che, se non l’avessero ammazzato a tradimento, forse la Sicilia avrebbe avuto una storia diversa. Giuliano stava organizzando un’intesa con i politici americani e forse noi siciliani saremmo diventati tutti Americani!
I magici incantesimi della mia infanzia erano alimentati anche da detti proverbiali, filastrocche, preghiere e racconti popolari.
C’era un motto per ogni avvenimento ed una preghiera giusta per le varie situazioni in cui ci si veniva a trovare.
Più che il testo di ciò che veniva pronunziato era il rituale la cosa più importante. Un rituale arcaico che si ripeteva da generazione in generazione e a cui quelle persone semplici credevano in modo incondizionato, ritenendo saggio ciò che veniva dal passato ed aveva tracciato la via del loro sapere .
Se al mattino mi gingillavo senza fare nulla e non avevo alcuna voglia di studiare, la nonna mi diceva: “La matinata fa la jurnata!” Voleva dire: “Se non studi di mattina, non ti verrà più la voglia di studiare e perderai la giornata!” E così presi l’abitudine di svegliarmi presto al mattino e di ripassare le lezioni della giornata con la mente lucida, riuscendo a rendere più di ogni altra ora del giorno.
Guai se non avevo voglia di mangiare! Mi si diceva: “Saccu vacanti ‘un po’ stari a l’addritta !” Equivaleva a dire: “Chi ha la pancia vuota non può stare all’impiedi!”
Non avrei potuto affrontare una giornata di studio e di lavoro con il sacco della mia pancia vuota!
Quando testardamente mi rifiutavo di fare qualcosa, mia madre mi diceva: ”La testa è chidda ch’un senti !” e, se disturbavo, mi gridava: “Nun rumpiri l’ova na lu panaru!” (rompere le uova nel paniere era un grosso fastidio, certamente!)
Si parlava a volte in famiglia di qualche ragazza nubile che non riusciva a trovare marito, allora invariabilmente si diceva: “Seri, seri, chi bedda ventura veni!”, cioè bisogna avere pazienza, sedere per l’appunto, perché la buona sorte sarebbe arrivata,prima o poi.
Simpatiche erano anche le filastrocche cantilenate, che assumevano a volte l’aspetto di vere e proprie formule di incantesimo.
La preghiera per San Vito, protettore della città di Mazara, era un’invocazione magica in caso di pericolo e faceva riferimento ad un’antica credenza che voleva il Santo trionfatore percorrere le strade della città di notte per difenderla dagli attacchi nemici. Qualcuno aveva visto di notte un cavaliere misterioso su un cavallo bianco. Certamente si trattava di San Vito!
La poesiola diceva così:
Santu Vitu di Mazzara,
cu lu vrazzu n’arripara
e a lu populu devotu
scansa guerri, tempesti
e terremotu!”



Il 13 dicembre, per la festa di Santa Lucia, dovevamo astenerci dal mangiare pane e pasta per tutta la giornata, si mangiava solo “cuccia”, cioè grano addolcito con “vino cotto”, che dava al cereale un gradevole sapore dolciastro.
Santa Lucia era la Santa protettrice degli occhi ed io avevo molta paura di rimanere cieca, se avessi trasgredito la regola!
Mia madre mi faceva ripetere così:
Santa Lucia, la virginedda
tutta pura e tutta bedda
la grazia nn’havi a fari
la vista di l’occhi nn’havi a guardari
!”

Solo così avrei potuto, preservando la vista, continuare gli studi, unica cosa importante per la mia vita.
La messa in scena recitata come orazione fatta ogni sera prima di andare a letto dalla zia Nicoletta, nella cui casa andavo a dormire per farle compagnia, era la cosa più bella a cui mi toccava assistere.
La zia prendeva in mano il grosso mazzo di chiavi , simbolo del suo potere casalingo dopo la morte del marito, poi cominciava a chiudere la porta che dava all’esterno, sulla strada, ripetendo così:
Iu chiuru la porta mia
cu lu mantu di Maria
lu vastuni di San Simuni
ascippa l’occhi a li mali persuni
e cu voli mali a mia.”
nun po’ attruvari né porta e mancu via
.”

( Io chiudo la mia porta mia
con il manto di Maria,
il bastone di San Simone,
strappa gli occhi alle cattive persone
e chi mi vuole male
non potrà trovare né porta né via.)

Dietro questa filastrocca si nascondeva la storia di una ragazza (“Fatto vero!”- diceva la zia), che viveva da sola perché orfana e, per la sua bellezza, era oggetto di attenzione da parte di molti uomini.
Ad uno di costoro, particolarmente cattivo, venne un gran desiderio di possedere la ragazza e così, dopo aver visto il posto in cui abitava, vi si recò a notte fonda con l’intenzione di farle del male.
Ma, per quanti sforzi facesse, non riusciva mai a trovare la porta della casa della ragazza. Al posto della porta, trovava un muro.
La zia Nicoletta mi diceva che la ragazza, ripetendo la filastrocca che ho riportato sopra, diventava immune da ogni male ed attirava su di sé la protezione di Maria che la copriva con il suo manto e quella di San Simone dal bastone infuocato.
La zia era convinta anche lei che la filastrocca-preghiera la proteggesse ed io mi divertivo a stuzzicarla dicendole che non poteva essere credibile che la porta diventasse muro.
Quando poi ci mettevamo a letto, nel suo lettone matrimoniale che profumava di lana di pecora e dove chi si coricava sprofondava nell’incavo formato dal proprio corpo, cominciava la lunga serie delle litanie o “cose di Dio”.
Mi sembrava di assistere ad una rappresentazione sacra dove i personaggi rievocavano scene tratte dai vangeli, miracoli, apparizioni prodigiose, con l’articolazione di rime a volte anche monotone, ma sempre espressione di un particolare senso di religiosità e di una specifica cultura.
Mi addormentavo stanca, convinta nel mio intimo che tutti i personaggi menzionati avrebbero protetto il mio sonno di bambina.
Per la mia vita da scolara ci avrebbe pensato Pinuzza Cusenza, una bambina morta in odore di santità che, a detta della nonna, proteggeva gli studenti.
Andavo a scuola con il santino che la raffigurava in tasca e, quando venivo interrogata dall’insegnante, lo stringevo ben bene fra le mani.
Nelle sere d’estate era abitudine diffusa presso i miei concittadini quella di sedersi fuori, all’aperto, nelle vie sgombre di macchine e ottimo parco-giochi per noi ragazzi che, stanchi di rincorrerci, finivamo col metterci anche noi nel circolo degli adulti per ascoltare storie fantasiose di mostri, fantasmi, gnomi, folletti e tutta una serie di personaggi fantastici.
Parenti e vicini di casa insieme ridevano e scherzavano allegramente, dimenticando le ultime disavventure della guerra e alla ricerca di un po’ di serenità.
A volte ci raggiungeva un signore che, fra lo stupore generale, era capace di decantare a memoria interi canti dell’Orlando furioso; ricordo anche una incredibile signora che veniva da Palermo capace di indovinare l’ora esatta in qualsiasi momento, senza avere l’orologio.
Molto strana era anche una donna, di nome Vitina, insofferente al colore giallo. Se intravedeva, anche da lontano, qualcuno con un indumento giallo, si avvicinava di botto e strappava l’oggetto che le dava fastidio, incurante del male che poteva arrecare al malcapitato di turno.
Un giorno, vedendo aperta la porta, entrò come un fulmine a casa mia e strappò dal balcone i fiori gialli che erano cresciuti nei vasi.
Nella mia città il personaggio più strano che ancora oggi viene ricordato con simpatia era l”omu-cani”. Si trattava di un barbone che aveva scelto di vivere ai margini della società, sulla strada e sotto i portici di piazza della Repubblica. Non accettava nulla da nessuno, mangiava quello che trovava nella spazzatura e fumava le cicche delle sigarette che i miei concittadini buttavano per strada. Noi bambini non avevamo paura di lui, anche perché non parlava con nessuno e non faceva del male, semplicemente aveva scelto un modo di vivere un po’ inusuale.
Mio padre buttava in terra le sigarette e gli dava modo di fumare, poi lo salutava affettuosamente chiamandolo “Tommaso”.
Dopo la sua morte, cominciò a circolare la voce che il personaggio misterioso che aveva soggiornato a Mazara per anni poteva essere nientedimeno che lo scienziato Ettore Majorana, scomparso negli anni proprio nello stesso periodo in cui il misterioso “omu-cani” aveva cominciato a circolare per le vie della città, molti furono i sostenitori di tale tesi, ma la cosa non fu mai chiarita. Tommaso, “omu-cani”, è ancora oggi uno dei personaggi più strani che io abbia conosciuto.
Molti erano i luoghi della città che erano considerati magici . La via detta “della figurella” o “la strata di lu ecu”, dell’eco, era la più incredibile e simbolica espressione del religioso e del profano uniti insieme, in una elaborazione popolare fantastica e per certi versi misteriosa.
Ci si recava in questa via al mattino, dopo aver recitato continue preghiere per tutto il tragitto dalla propria casa, si formulava mentalmente un interrogativo su ciò che si voleva sapere, qualcosa che poteva riguardare sia il proprio che l’altrui destino, poi si proseguiva lentamente prestando religioso ascolto ad ogni minimo rumore, alle parole pronunciate dagli abitanti del luogo, agli animali ostili che avrebbero potuto scagliarsi contro; tutto poteva essere significativo e profondamente carico di una nascosta simbologia.
Una delle mie zie, quando non aveva notizie del marito lontano, mi prendeva per mano e mi faceva partecipare al magico rituale.
Se sentivamo delle voci che dicevano: “Bonu stà, nun ti preoccupari!”, oppure “ora veni, ora veni!” o qualcosa di simile, la zia tornava a casa rasserenata, sicura che il marito stava bene e presto sarebbe tornato.
Ma se per caso un cane ci abbaiava dietro, affrettavamo il passo verso la via del ritorno, convinte che c’era qualcosa che non andava.
Oggi si è perso completamente il ricordo della strada dell’eco. Vi soggiornano, nelle ore pomeridiane, bande di ragazzini con i telefonini accesi che, certi del loro presente, non hanno bisogno di interpellare voci lontane per avere informazioni e consigli.
Tra i luoghi religiosi misti di sacro e profano, c’erano le chiese dell’immediato circondario, alcune delle quali dedicate alla Madonna ma con nomi diversi, c’era la Madonna del Paradiso, la Madonna dell’alto e la chiesa di Santa Maria di Gesù.
Ad ognuna di queste chiese era dedicata una particolare festività a cui si partecipava in massa, essendo anche occasione di svago e divertimento.
Chi riceveva una grazia particolare dalla Madonna del Paradiso si impegnava ad accompagnare, a piedi scalzi, il quadro della Madonna miracolosa nella solenne processione che si svolgeva e si svolge tuttora il secondo mercoledì del mese di luglio. Ci si impegnava anche ad indossare un vestito particolare di colore celeste somigliante, nella forma, ad una ampia tonaca, stretto in vita da un cordone bianco.
Dal balcone di casa mia vedevo sfilare la lunghissima processione, avvertivo forte l’odore dei ceri accesi, lunghi quanto era lunga la persona che li teneva in mano, e dicevo a me stessa che la Madonna era veramente brava a fare i miracoli, ma il miracolo più grande era il fatto che tanta gente riusciva a camminare senza scarpe, a piedi nudi, sull’asfalto unto di cera.
Presso la chiesa della Madonna dell’alto ci recavamo la sera del ferragosto. A piedi, ridendo e scherzando, percorrevamo la lunga strada rettilinea che conduceva nella chiesetta normanna; poche preghiere questa volta, si trattava solo di semplice divertimento.
E così era per divertimento che il lunedì di Pasqua ci recavamo a frotte a “Miragliano”, un fantastico luogo roccioso nei pressi della chiesa di Santa Maria di Gesù, dove devotamente ci fermavamo a pregare.
Facevamo merenda fra le rocce mangiando patate bollite ed uova sode, e mentre noi ragazzi andavamo ad esplorare le grotte vicine, i grandi ci dicevano di stare attenti perché in una di queste grotte una volta si erano dispersi sette seminaristi . La grotta era stata chiamata “grotta di li setti parrini”; se ne conosceva l’entrata e non l’uscita.
Intanto il tempo passava lento ed inesorabile; apparentemente sembrava che tutto fosse sempre uguale, in realtà, la mia vita e quella dei componenti la mia famiglia subiva le trasformazioni proprie della società in continua evoluzione.
Quando anche a Mazara arrivò la televisione, fu l’apertura verso nuovi orizzonti. Non più personaggi creati con la fantasia, non più fatti selezionati e proposti dai nostri lontani progenitori con una lingua limitata alla cerchia di noi Siciliani, ma storie somministrate da un potere lontano, in una lingua che non ci apparteneva ma che era l’unica possibile per tutti.
Riuniti attorno all’apparecchio televisivo, oggi abbiamo sostituito le fantasie e le letture dell’infanzia con telefilm, fiction e fumetti animati, mentre abbiamo permesso a cantanti, attori e divi del calcio di guidare le nostre giornate e riempirci la testa con i loro scoop.
Entrata nel mondo degli adulti, mi capitò per qualche tempo di contestare personaggi e luoghi della mia giovinezza; amavo il nuovo, il moderno, l’innovazione foriera di epocali cambiamenti.
Dietro la mia apparente modernità però finivo col ritrovare sempre il romanticismo dell’infanzia e la formazione un po’ fatalistica che aveva dato origine alla mia cultura.
Sono trascorsi parecchi anni dai fatti appena raccontati e con essi è trascorsa la mia gioventù, insieme alla ingenuità ed alla spensieratezza che la caratterizzavano.
Oggi vivo ancora nella stessa città dove nulla è così radicalmente cambiato che non si potrebbe, volendo, riconoscerle l’aspetto di allora; ma sono mutati gli uomini e le cose mentre le vicende, se pure a volte simili a quelle di un tempo, non ne hanno certo lo stesso carattere.
Così, per un momento, mi volto ancora a guardarle e cerco di capire perché continuano ancora a lanciarmi i loro messaggi, a parlarmi di semplicità, di poesia, di valori, in una realtà divenuta ormai difficile anche in questo profondo sud.
Sfogliando il libro dei ricordi, mi ritrovo a fare i conti con me stessa, ad ordinare le cose nel loro spazio e nel loro tempo e, come per una precisa simbolica corrispondenza fra passato e presente, rivedo netto il mio personale percorso di vita: da bambina a donna.

1 commento:

Shaw Flora ha detto...

Non credo mai che ci sarà mai una soluzione al mio problema relazionale con il mio amante. il mio amante chiamato Randy West mi ha buttato fuori da casa sua e ha portato un'altra signora che ora sente l'unico migliore per lui. fino a quando un giorno ricevo una telefonata da un amico della città che il mio uomo esce per un appuntamento con un'altra donna in città, le ho detto che anch'io sono sorpresa, perché da quando Randy West mi ha lasciato a sentire non penso e non chiamano me. così dopo alcuni giorni la mia amica chiamata Alice mi ha chiamato e mi ha detto che ha trovato un uomo molto potente, ed è un grande erborista africano, davvero tutti sappiamo che gli africani sono benedetti con così tanti poteri a base di erbe che usano per aiutare molte persone, così mi ha detto che il nome dell'uomo è Dr Wealthy che inoltrerà il suo indirizzo e-mail per contattarmi, così davvero mi ha mandato l'indirizzo email di Wealthy e l'ho contattato quel giorno fedele . mi ha spedito dopo un po 'che il mio uomo tornerà da me se solo credo nel suo lavoro, così dopo 48 ore ricevo una telefonata da Randy West, e ha iniziato a chiedere l'elemosina che avrei dovuto perdonarlo contro tutto ciò che aveva fatto per io ... mi ha implorato di spezzarmi il cuore e lasciare che l'altra donna avesse un cuore nuovo. mi promette di non lasciarmi mai andare. ora io e Randy West stiamo pianificando di sposarci il prima possibile. siamo portati indietro con il grande incantesimo d'amore potente e accecato dall'incantesimo Dottor Wealthy, siamo felici e contenti. contatta Dr Wealthy su questo indirizzo di posta elettronica wealthylovespell@gmail.com puoi anche contattarlo tramite whatsapp su +2348105150446 per la soluzione a qualsiasi tipo di problema tu abbia.