Allo specchio
Mi sveglio intontita dopo una notte insonne. La testa mi brucia, mille pensieri hanno invaso la mia mente. Non sono riuscita a spegnere l’interruttore della sala cinematografica che si trova dentro di me e che proietta continuamente i suoi film. Un clic e mi sarei buttata fra le braccia di Morfeo. Un clic e avrei dormito come un angioletto.
Suoni, parole dette e non dette,
respiro affannoso,
timido scorrer di ciglia,
lava infuocata bruciante
del mio vulcano interiore
Ho atteso rumori,
echi di vite diverse
scanditi dal tempo che passa
e porta con sé le mie angosce.
Ora, davanti allo specchio del bagno, sempre lo stesso da più di trenta anni , mi guardo come se mi vedessi per la prima volta . Mio Dio, come sono cambiata! Da quando? da ieri, da un mese fa, dall’anno scorso….
Mentre mi asciugo il volto, arrivano rapidi dei sovrappensieri che si accavallano ai primi.
Quanti anni ancora mi restano? Dieci o venti. Forse trenta, se arrivo all’età di mia madre.
Lo specchio mi rimanda l’immagine di una donna stanca. Sarà colpa della nottataccia,mi dico, sarà lo stress accumulato durante l’ultimo periodo di vita di mia madre, sarà qualcosa altro, non so.
Gli occhi hanno perso la vitalità d’un tempo, mi sembrano un po’ spenti, faticano a rimanere ben aperti, sono occhi stanchi , da sessantenne sempre alla ricerca degli occhiali che non sa mai dove ha posato. Chi o che cosa mi ha sottratto la bellissima capacità di leggere senza occhiali da vicino ed anche da lontano?
In classe leggevo benissimo senza occhiali e non è passato poi molto tempo! O forse sì?
Ero convinta che i miei occhi sarebbero rimasti sempre perfettamente funzionanti, sani e vitali come tutte le altre parti del corpo.
Specchio, specchio delle mie brame, quando è cominciato il declino e perché non me ne sono accorta ?
Gli occhi di mia madre, nel suo ultimo periodo di vita, erano diventati liquidi, trasparenti . Sembrava che dovessero sciogliersi da un momento all’altro.
Il suo sguardo era fisso, immobile, non vedeva nulla di ciò che le stava attorno. Non mi vedeva. Non vedeva la vita che le si svolgeva attorno. Non sentiva il suono della mia voce che pure aveva sempre riconosciuto; era morta ancora prima di morire e le nostre strategie per mantenerla in vita erano solo un rimedio artificioso.
Socchiudo gli occhi per osservarmi nell’insieme, evitando i particolari che manifestano segni di vecchiaia.
Come e quando sono avvenute le trasformazioni che mi hanno fatto diventare la donna che sono adesso?
E come ho fatto ad invecchiare senza accorgermene ?
Ho la vaga impressione che i pensieri, riempiendo la mente, riescono a dare un’ impronta al viso.
Sono gocce d’acqua, i miei pensieri. Goccia dopo goccia possono formare una pozzanghera, uno stagno, un lago o un mare.
Oggi però sono di fronte ad un mare inquinato. Vedo tutto nero.
Mi sento invadere da una sensazione di completa impotenza di fronte allo scorrere veloce del tempo ed ai cambiamenti che si sono prodotti e continuano a prodursi in me.
Anche lei , mia madre, si sentiva impotente di fronte alla tempesta che stava per travolgerla. Nei primi tempi dell’affermarsi del male reagì con la paura ed il sospetto. Sospetto per tutto quanto di pernicioso potesse venirle dall’esterno.
Il suo male l’aveva dentro,, nelle cellule in decomposizione, ma lei lo vedeva solo all’esterno. Aveva paura di possibili ladri, di estranei che potevano intrufolarsi nella sua casa, aveva paura di perdere la sua amata indipendenza.
Osservo il mio corpo. La pelle non è più compatta, tende a raggrinzirsi in qualche punto. Rughe e rughette attorno agli occhi e il collo sembra quello di una gallina. Sembra che tutte le parti di me, ogni cellula, ogni tessuto, ogni piccola parte, avendo come programma l’invecchiamento, sappia esattamente cosa fare e come comportarsi.
Il respiro mi sembra l’elemento più prezioso.
Quello che tiene armoniosamente insieme le parti del corpo.
Assisto ai miei movimenti come se fossero le azioni di qualcun altro.
Il viso di mia madre, nel periodo successivo alla prima fase, quella della paura, si trasformò in una maschera. Era entrata nella fase aggressiva.
Non voleva in casa donne che l’aiutassero. Cacciava tutti brandendo il bastone. Poi, con qualche goccia di calmante, la donna energica e sempre vivace si trasformò in bambina remissiva .
Provo a fare dei movimenti di ginnastica. Alzo le braccia, le spingo in avanti, saltello sui piedi. Occorre fare un po’ di dieta. Il corpo si sta appesantendo.
Il tempo. Irriducibile nemico.
Purtroppo però è sempre sera, sempre la fine del mese, sempre la fine dell’anno. Le settimane vanno via come i giorni, i mesi come le settimane.
Forse la mia vita è stata un sogno .
Anche quello che è successo a mia madre si è svolto come un sogno. Un sogno durato dieci anni, giorno dopo giorno. Dieci anni di buio della mente, fino allo spegnimento totale .
E’ diventata bambina. Intere giornate trascorse a mettere insieme i lembi di una coperta fino a comporre un fiore.
Con il declino, è iniziata l’immobilità . Era come se una valvola si fosse chiusa nel suo petto e non avesse più lasciato passare i messaggi della vita.
Esisteva solo la sua realtà, molto circoscritta e quasi inesistente.
La mamma della mia vita
si è trasformata in mia figlia.
Abbiamo invertito le parti
in un unico flusso di amore.
Un tremito mi scuote il busto, un accenno di trasalimento che il ricordo di quei giorni ha reso visibile all’esterno. Paura. Paura di ciò che anch’io non sarei capace di controllare.
Faccio movimenti lenti , al rallentatore. Le braccia al petto, come mia madre nei suoi ultimi giorni.
Braccia inchiodate, rigidamente impostate, dure come macigni. Le gambe piegate da un lato, il corpo rattrappito.
Come facevo prima a fare tutto di corsa?
Non avevo molto tempo da dedicare allo specchio. Qualche minuto per un trucco sommario ed ero pronta ad affrontare il mio quotidiano. Bambini , lavoro, compiti da correggere a casa, pranzo, cena …chi pensava ad osservare i cambiamenti del corpo?
La mia immagine di quei tempi quasi non la riconosco. Capelli cotonati, vestiti goffi, larghi, sorrisi con denti cariati…
Mi piaccio di più adesso.
Allora però avevo sempre accanto i miei bambini. I miei bei bambini.
Specchio, specchio delle mie brame, dove sono finiti gli abitanti del reame?
Mia madre, prima di cadere nelle grinfie dell’Altzeimer, sembrava invulnerabile. Saliva e scendeva le scale di corsa, raccontava le sue piccole cose in modo ridondante, parlava, parlava, sempre pronta a difendere il suo territorio come un cane mastino che teme di essere attaccato.
Fra non molto l’occhio si appassirà un po’ di più,la mia bocca perderà il suo tono, la pelle si piegherà in mille solchi e, senza accorgermene, entrerò nell’ultima fase della mia vita.
Ma chi se ne frega?
Posso decidere di vivere in modo positivo, a dispetto di tutto.
Crearmi un giorno fantastico, entrare nelle sfere della mia memoria letteraria magari, ripetere mentalmente una bella poesia classica o canticchiare una canzone fra le poche che conosco.
Debbo togliere l’espressione dura che a volte si addensa tra le sopracciglia come una nube minacciosa. Un sorriso a tutti denti ed il viso si illumina. a Sorridere di più è il mio programma. Assumere anche l’aria un po’ divertita, da attrice che recita in una commedia. La commedia della vita.
Come fanno gli attori quando provano le loro recite? Si mettono davanti ad uno specchio e parlano adeguando il viso alle battute da recitare. Atteggiamento accigliato, di rabbia, di disapprovazione, di rammarico, sorriso accattivante, espressione d’amore, tenerezza e così via.
Potrei farlo anch’io; fingere, mostrare di essere quella che non sono e sentirmi “altro” da me stessa.
Voglio guardare il sole, come ho fatto ieri, seduta su una panchina del lungomare.
Guardando il sole che muore,
palla infuocata sul mare,
l’occhio si riempie di luce
ritrovo lontani pensieri d’amore
vibranti scintille nell’aria serena
portano pace nel cuore.
Mi rincantuccio dietro le palpebre sollevate ed inquadro nuovamente l’immagine riflessa. Ora mi sento un po’ meglio e mi sento pervadere da una forte sensazione di non so che.
Non so che.
Forse è iniziata, a sessanta anni, la stagione più importante della mia vita.
Mentre pettino i capelli schiariti dalle meches, sorrido e faccio le prove generali di come appaio all’esterno. Non c’è male!
Un po’ di luce al viso, un rossetto colorato, uno sguardo d’insieme… e via verso la mia giornata da pensionata.
domenica 18 dicembre 2011
martedì 25 ottobre 2011
Il tavolino a tre piedi
IL TAVOLINO A TRE PIEDI
Era tondo e ben piazzato su tre piedi il tavolino che Lina si apprestava ad interrogare. Il colore era quello del legno grezzo, non molto lavorato nè trattato con vernici , un colore che passava dal marrone chiaro allo scuro intenso a causa di certe macchie tendenti a formare strane chiazze.
Chi si soffermava a guardarle, queste chiazze, credeva di scorgere disegni, figure, immagini, cose insomma che ognuno poteva interpretare a proprio piacere.
Il tavolino era diventato tutt’uno con Lina. Lei lo curava, lo spolverava, lo metteva all’ombra d’estate quando il sole caldo entrava dalla finestra e sembrava volesse bruciare i poveri arredi della casa, lo sistemava a suo modo e l’interrogava. Faceva delle domande e il tavolino si affrettava a risponderle.
Sembrava avesse una vita propria. Si animava, scricchiolava, si sollevava su un piede, su due piedi, dava ripetuti colpetti o taceva dispettosamente, obbedendo quasi agli ordini di un oscuro interno manovratore che era in grado di comunicare con Lina.
Alla donna bastava poggiare i polpastrelli delle dita sulla superficie del tavolo per avere delle risposte ben precise su eventi e situazioni.
Nei difficili anni del dopoguerra un tavolino a tre piedi poteva essere considerato fonte di notizie; le lettere dei soldati in guerra non arrivavano o, se arrivavano, mostravano i segni della censura, intere righe ricoperte da nero inchiostro. La gente continuava ad interrogarsi sullo stato di salute dei parenti lontani, cercava di sapere qualcosa sulla guerra, se stava per finire o se avrebbe causato altri guai e, soprattutto, desiderava conoscere quando ci sarebbe stato il ritorno alla normalità.
Munnu è e munnu ha statu.
Dopo le tribolazioni, arriva sempre il momento della tregua e in un periodo in cui le comunicazioni erano ridotte al minimo, solo l’aldilà sembrava in grado di dare delle risposte.
Con chi comunicava Linua e quale spirito faceva animare un semplice tavolinu a tre piedi?
Era meglio non sapere.
Era tondo e ben piazzato su tre piedi il tavolino che Lina si apprestava ad interrogare. Il colore era quello del legno grezzo, non molto lavorato nè trattato con vernici , un colore che passava dal marrone chiaro allo scuro intenso a causa di certe macchie tendenti a formare strane chiazze.
Chi si soffermava a guardarle, queste chiazze, credeva di scorgere disegni, figure, immagini, cose insomma che ognuno poteva interpretare a proprio piacere.
Il tavolino era diventato tutt’uno con Lina. Lei lo curava, lo spolverava, lo metteva all’ombra d’estate quando il sole caldo entrava dalla finestra e sembrava volesse bruciare i poveri arredi della casa, lo sistemava a suo modo e l’interrogava. Faceva delle domande e il tavolino si affrettava a risponderle.
Sembrava avesse una vita propria. Si animava, scricchiolava, si sollevava su un piede, su due piedi, dava ripetuti colpetti o taceva dispettosamente, obbedendo quasi agli ordini di un oscuro interno manovratore che era in grado di comunicare con Lina.
Alla donna bastava poggiare i polpastrelli delle dita sulla superficie del tavolo per avere delle risposte ben precise su eventi e situazioni.
Nei difficili anni del dopoguerra un tavolino a tre piedi poteva essere considerato fonte di notizie; le lettere dei soldati in guerra non arrivavano o, se arrivavano, mostravano i segni della censura, intere righe ricoperte da nero inchiostro. La gente continuava ad interrogarsi sullo stato di salute dei parenti lontani, cercava di sapere qualcosa sulla guerra, se stava per finire o se avrebbe causato altri guai e, soprattutto, desiderava conoscere quando ci sarebbe stato il ritorno alla normalità.
Munnu è e munnu ha statu.
Dopo le tribolazioni, arriva sempre il momento della tregua e in un periodo in cui le comunicazioni erano ridotte al minimo, solo l’aldilà sembrava in grado di dare delle risposte.
Con chi comunicava Linua e quale spirito faceva animare un semplice tavolinu a tre piedi?
Era meglio non sapere.
giovedì 22 settembre 2011
DON VITINO, L'AMERICANO
DON VITINO L’ AMERICANO
I parenti all’aeroporto li salutarono calorosamente. L’ottantenne Vitino, che in vita sua mai era salito su un aereo, sentiva l’emozione salirgli in gola. Avrebbe fatto questo sacrificio, forse l’ultimo della sua lunga vita, ma finalmente si sarebbe tolto il pensiero dalla testa . Era da qualche anno che aveva cominciato a ricordare intensamente la sua terra, il paese dove aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Mazara,la sua città lontana, gli frullava continuamente nella mente , con le sue straduzze, il mare, le barchette dei pescatori ,la povertà dignitosa dei suoi abitanti. Per tanti anni l’aveva rimossa dalla sua vita, cancellata, eliminata, e poi improvvisamente gli era venuto in mente il suo lontano passato in Sicilia. Forse perché era arrivata la sua ora, pensava, forse questo era l’ultimo desiderio di chi avverte che sta per lasciare questo mondo.
Don Vitino aveva lavorato tanto in America. Aveva lavorato e costruito. Era diventato americano a tutti gli effetti e per tanto tempo aveva scordato le sue origini italiane. E perché proprio ora gli era venuto il desiderio di tornare? Voglio un regalo, aveva detto ai figli e ai nipoti, il mio compleanno lo voglio passare in Sicilia.
Bizzarrie di vecchi, dissero fra loro i figli, ma non se la sentirono di troncare al vecchio padre il suo sogno. Decisero che l’avrebbe accompagnato il giovane Vito, il nipote che portava il suo nome e che un po’ d’italiano riusciva a parlare. Don Vitino e Vito, nonno e nipote, partivano insieme per riscoprire Mazara.
Don Vitino si sedette sull’aereo e guardò i bambini,i giovani, gli uomini e le donne che avrebbero viaggiato con lui. Più di sessanta anni erano passati da quando aveva fatto il viaggio d’andata in piroscafo e mai era tornato da allora! Andando verso l’America era rimasto giorni e giorni seduto su una panchina della nave a guardare il mare. Si sentiva uno sconfitto, un giovane che aveva dovuto migrare per uno stato di bisogno, ma ora sarebbe tornato in Sicilia da vincitore !
Si aggiustò la giacca, toccò il portafogli pieno di dollari che avrebbe regalato ai picciriddi e si mise a guardare il cielo dal finestrino dell’aereo. Era azzurro, sereno, forse anche a Mazara c’era lo stesso cielo. Vito sorrise al vecchio nonno. Aveva un sorriso simpatico il nipote, era un ragazzo bello e intelligente, aveva studiato, si era laureato e adesso lavorava presso una grande azienda. I miei poveri parenti siciliani, pensava don Vitino, chissà che fanno!
Li aveva lasciati poveri, il pane davanti e loro dietro a rincorrerlo! quanti pacchi mandò dall’America ai parenti dopo la guerra ! Vestiti, scarpe, scatole di frutta sciroppata, cioccolatini, tutte le cose che poteva raccogliere in giro! E loro scrivevano contenti e ringraziavano di tutto quel ben di Dio.
Il giovane Vito faceva parlare il vecchio nonno e quasi quasi si sentiva in colpa di stare così bene e di avere un lavoro ben retribuito! Vedrai, nonno, ora le cose saranno cambiate! Anche in Sicilia si starà meglio! Don Vitino non ne era proprio sicuro.
Aveva smesso da tempo di avere notizie dei suoi parenti siciliani. C’era stato un malinteso, una volta, per un pacco per cui avevano litigato e lui aveva deciso di smettere con gli aiuti.
Anni e anni trascorsi senza sapere notizie, buio completo. Un giorno però aveva saputo della morte del suo unico fratello e poi di una delle sorelle. Non era però riuscito a provare del vero dolore, dato che non li aveva più pensati. I nipoti ed i pronipoti poi li sconosceva completamente. Chissà se facevano ancora i pescatori! Li immaginava senza scarpe, vicino alle barche, attivi nel riparare le reti da pesca e, poverini, sempre sul mare.
Il viaggio in aereo fu accompagnato da mille pensieri. Tutto sommato, era stato accettabile. Quando nonno e nipote giunsero in Sicilia , all’aeroporto di Birgi, Vito lo aiutò a prendere il bagaglio ed a scendere dall’aereo. Erano a due passi da casa.
Sarebbero cominciate da questo momento le piccole soddisfazioni di chi non ha problemi economici. Avrebbero preso un taxi, sarebbero andati in un albergo, che il nipote aveva prenotato dall’America, e poi avrebbero iniziato il cammino legato ai ricordi di don Vitino.
Ma già, entrando a Mazara per quella via che tante volte aveva fatto da bambino quando andava al mulino a macinare il grano, don Vitino cominciò a rigirarsi nel sedile della macchina come se fosse stato punto da vespe. Ma questa è Mazara? Nun la canusciu. Si girò a guardare tanto che il collo cominciò a fargli male, cercava l’aggancio con i ricordi che aveva nella mente, ma non ci fu niente da fare. Si calmò soltanto quando, dopo aver attraversato la città, che continuava a non riconoscere, finalmente arrivarono sul lungomare.
<< Sì, sì, il mare, il mare!>> si mise a gridare e con queste parole intendeva rievocare i giorni trascorsi con i compagni di un tempo a fare tuffi e giocare allegramente sotto un sole che bruciava ogni cosa.
L’albergo era bellissimo. Nuovo e arredato secondo gli ultimi dettami della moda; parlavano benissimo in inglese gli impiegati che gentilmente trascrissero i loro dati e li accompagnarono nelle stanze. Vito si fece dare un elenco telefonico e cercò subito di rintracciare i parenti.
La prima telefonata fu per uno zio, figlio di una sorella del nonno. << Hallò, hallò - disse Vito-io sono parente americano !>> Fu difficile spiegare chi era e perché si trovava lì con il vecchio nonno, ma infine dopo vari giri di parole, riuscirono a mettersi d’accordo. Don Vitino riuscì a vedere la sorella , dopo sessantacinque anni , ma non provò alcuna soddisfazione perchè la poveretta aveva l’Altzeimer e non lo riconobbe. Il nipote di don Vitino aveva una bellissima villa nella zona di Tonnarella, faceva l’imprenditore edile e non gli mancavano certo i soldi. Quando a don Vitino fu presentata una pronipote , gli uscirono gli occhi fuori dalle orbite. Truccatissima e vestita all’ultima moda, sembrava pronta per partecipare ad una sfilata.
E li picciriddi? Quelli a cui doveva regalare i dollari? C’erano in giro dei bambini, tutti belli ,rosei e ben vestiti, tanto che a don Vitino sembrò brutto regalare i suoi soldini.
Non è che gli dispiaceva che i parenti siciliani stessero bene, era che li aveva pensati in un altro modo! Sugnu cuntenti, sugnu cuntenti, ripeteva a tutti, qui state meglio dell’America! I suoi parenti erano diventati avvocati e dottori e c’era persino qualcuno che aveva fatto carriera nel mondo della politica ed era diventato famoso e rispettabile.
Gli fecero visitare la città. Le strade del centro dove aveva abitato erano abbandonate e prive di quella vita che era rimasta attaccata ai suoi ricordi come l’edera si attacca al muro. Le chiese, i palazzi, gli edifici importanti della città riuscirono a trasmettergli qualcosa , ma non tanto da suscitare in lui l’emozione che aveva per tanto tempo immaginato. Quello che più lo colpirono furono però le persone. Sembravano tutte smaniose di divertirsi e passare da un ristorante, da una pizzeria ad un’altra. Il sabato sera la città diveniva un teatro. Ragazzi, uomini, donne in giro per le strade in cerca di passatempi e divertimenti. Non si cercavano più gli incontri tra parenti per scambiare le classiche quattro chiacchiere, ora era un brulicare di inviti a cene e feste con musica e Karaoke.
Don Vitino partì da Mazara contento di tornare nella sua America perché la città dove era nato non era più tanto sua!
I parenti all’aeroporto li salutarono calorosamente. L’ottantenne Vitino, che in vita sua mai era salito su un aereo, sentiva l’emozione salirgli in gola. Avrebbe fatto questo sacrificio, forse l’ultimo della sua lunga vita, ma finalmente si sarebbe tolto il pensiero dalla testa . Era da qualche anno che aveva cominciato a ricordare intensamente la sua terra, il paese dove aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Mazara,la sua città lontana, gli frullava continuamente nella mente , con le sue straduzze, il mare, le barchette dei pescatori ,la povertà dignitosa dei suoi abitanti. Per tanti anni l’aveva rimossa dalla sua vita, cancellata, eliminata, e poi improvvisamente gli era venuto in mente il suo lontano passato in Sicilia. Forse perché era arrivata la sua ora, pensava, forse questo era l’ultimo desiderio di chi avverte che sta per lasciare questo mondo.
Don Vitino aveva lavorato tanto in America. Aveva lavorato e costruito. Era diventato americano a tutti gli effetti e per tanto tempo aveva scordato le sue origini italiane. E perché proprio ora gli era venuto il desiderio di tornare? Voglio un regalo, aveva detto ai figli e ai nipoti, il mio compleanno lo voglio passare in Sicilia.
Bizzarrie di vecchi, dissero fra loro i figli, ma non se la sentirono di troncare al vecchio padre il suo sogno. Decisero che l’avrebbe accompagnato il giovane Vito, il nipote che portava il suo nome e che un po’ d’italiano riusciva a parlare. Don Vitino e Vito, nonno e nipote, partivano insieme per riscoprire Mazara.
Don Vitino si sedette sull’aereo e guardò i bambini,i giovani, gli uomini e le donne che avrebbero viaggiato con lui. Più di sessanta anni erano passati da quando aveva fatto il viaggio d’andata in piroscafo e mai era tornato da allora! Andando verso l’America era rimasto giorni e giorni seduto su una panchina della nave a guardare il mare. Si sentiva uno sconfitto, un giovane che aveva dovuto migrare per uno stato di bisogno, ma ora sarebbe tornato in Sicilia da vincitore !
Si aggiustò la giacca, toccò il portafogli pieno di dollari che avrebbe regalato ai picciriddi e si mise a guardare il cielo dal finestrino dell’aereo. Era azzurro, sereno, forse anche a Mazara c’era lo stesso cielo. Vito sorrise al vecchio nonno. Aveva un sorriso simpatico il nipote, era un ragazzo bello e intelligente, aveva studiato, si era laureato e adesso lavorava presso una grande azienda. I miei poveri parenti siciliani, pensava don Vitino, chissà che fanno!
Li aveva lasciati poveri, il pane davanti e loro dietro a rincorrerlo! quanti pacchi mandò dall’America ai parenti dopo la guerra ! Vestiti, scarpe, scatole di frutta sciroppata, cioccolatini, tutte le cose che poteva raccogliere in giro! E loro scrivevano contenti e ringraziavano di tutto quel ben di Dio.
Il giovane Vito faceva parlare il vecchio nonno e quasi quasi si sentiva in colpa di stare così bene e di avere un lavoro ben retribuito! Vedrai, nonno, ora le cose saranno cambiate! Anche in Sicilia si starà meglio! Don Vitino non ne era proprio sicuro.
Aveva smesso da tempo di avere notizie dei suoi parenti siciliani. C’era stato un malinteso, una volta, per un pacco per cui avevano litigato e lui aveva deciso di smettere con gli aiuti.
Anni e anni trascorsi senza sapere notizie, buio completo. Un giorno però aveva saputo della morte del suo unico fratello e poi di una delle sorelle. Non era però riuscito a provare del vero dolore, dato che non li aveva più pensati. I nipoti ed i pronipoti poi li sconosceva completamente. Chissà se facevano ancora i pescatori! Li immaginava senza scarpe, vicino alle barche, attivi nel riparare le reti da pesca e, poverini, sempre sul mare.
Il viaggio in aereo fu accompagnato da mille pensieri. Tutto sommato, era stato accettabile. Quando nonno e nipote giunsero in Sicilia , all’aeroporto di Birgi, Vito lo aiutò a prendere il bagaglio ed a scendere dall’aereo. Erano a due passi da casa.
Sarebbero cominciate da questo momento le piccole soddisfazioni di chi non ha problemi economici. Avrebbero preso un taxi, sarebbero andati in un albergo, che il nipote aveva prenotato dall’America, e poi avrebbero iniziato il cammino legato ai ricordi di don Vitino.
Ma già, entrando a Mazara per quella via che tante volte aveva fatto da bambino quando andava al mulino a macinare il grano, don Vitino cominciò a rigirarsi nel sedile della macchina come se fosse stato punto da vespe. Ma questa è Mazara? Nun la canusciu. Si girò a guardare tanto che il collo cominciò a fargli male, cercava l’aggancio con i ricordi che aveva nella mente, ma non ci fu niente da fare. Si calmò soltanto quando, dopo aver attraversato la città, che continuava a non riconoscere, finalmente arrivarono sul lungomare.
<< Sì, sì, il mare, il mare!>> si mise a gridare e con queste parole intendeva rievocare i giorni trascorsi con i compagni di un tempo a fare tuffi e giocare allegramente sotto un sole che bruciava ogni cosa.
L’albergo era bellissimo. Nuovo e arredato secondo gli ultimi dettami della moda; parlavano benissimo in inglese gli impiegati che gentilmente trascrissero i loro dati e li accompagnarono nelle stanze. Vito si fece dare un elenco telefonico e cercò subito di rintracciare i parenti.
La prima telefonata fu per uno zio, figlio di una sorella del nonno. << Hallò, hallò - disse Vito-io sono parente americano !>> Fu difficile spiegare chi era e perché si trovava lì con il vecchio nonno, ma infine dopo vari giri di parole, riuscirono a mettersi d’accordo. Don Vitino riuscì a vedere la sorella , dopo sessantacinque anni , ma non provò alcuna soddisfazione perchè la poveretta aveva l’Altzeimer e non lo riconobbe. Il nipote di don Vitino aveva una bellissima villa nella zona di Tonnarella, faceva l’imprenditore edile e non gli mancavano certo i soldi. Quando a don Vitino fu presentata una pronipote , gli uscirono gli occhi fuori dalle orbite. Truccatissima e vestita all’ultima moda, sembrava pronta per partecipare ad una sfilata.
E li picciriddi? Quelli a cui doveva regalare i dollari? C’erano in giro dei bambini, tutti belli ,rosei e ben vestiti, tanto che a don Vitino sembrò brutto regalare i suoi soldini.
Non è che gli dispiaceva che i parenti siciliani stessero bene, era che li aveva pensati in un altro modo! Sugnu cuntenti, sugnu cuntenti, ripeteva a tutti, qui state meglio dell’America! I suoi parenti erano diventati avvocati e dottori e c’era persino qualcuno che aveva fatto carriera nel mondo della politica ed era diventato famoso e rispettabile.
Gli fecero visitare la città. Le strade del centro dove aveva abitato erano abbandonate e prive di quella vita che era rimasta attaccata ai suoi ricordi come l’edera si attacca al muro. Le chiese, i palazzi, gli edifici importanti della città riuscirono a trasmettergli qualcosa , ma non tanto da suscitare in lui l’emozione che aveva per tanto tempo immaginato. Quello che più lo colpirono furono però le persone. Sembravano tutte smaniose di divertirsi e passare da un ristorante, da una pizzeria ad un’altra. Il sabato sera la città diveniva un teatro. Ragazzi, uomini, donne in giro per le strade in cerca di passatempi e divertimenti. Non si cercavano più gli incontri tra parenti per scambiare le classiche quattro chiacchiere, ora era un brulicare di inviti a cene e feste con musica e Karaoke.
Don Vitino partì da Mazara contento di tornare nella sua America perché la città dove era nato non era più tanto sua!
mercoledì 14 settembre 2011
Un viaggio
Un viaggio
Ero giovane allora. Giovane ma non tanto da non avvertire nel mio corpo il peso dell’età che avanza. Dopo le gravidanze, i figli, le fatiche proprie della donna che lavora e che deve badare anche alla conduzione del menage domestico avvertivo in me la stanchezza dell’organismo in fase di cambiamento. Un’ incredibile pesantezza alle gambe mi causava molto fastidio e mi impediva di svolgere normalmente le mie giornate. Ricordo che cercavo continuamente del sollievo alzando le gambe sulle sedie e chiedendo scusa a coloro che mi stavano vicino. Anche di notte avvertivo bruciori nelle gambe. Mi alzavo allora e camminavo a piedi nudi per casa cercando sollievo nella frescura del pavimento di ceramica.
Non c’erano medicine o cure che potevano darmi sollievo e così tiravo a campare sperando che il giorno successivo fosse migliore di quello presente.
In quel periodo io e mio marito eravamo molto attivi in parrocchia. Insieme a coppie della nostra età avevamo creato un gruppo di ricerca spirituale e di preghiera e ci sentivamo forti e attivi in parrocchia e in città.
L’amica che ci spronava ad agire in nome della carità cristiana era allora Anna. Rimasta vedova ancora giovane, Anna si era votata interamente al bene e alle opere di carità. Come un fiume in piena ci spingeva ad aiutare i più deboli , ci coinvolgeva con le sue storie di vita e spesso ci trascinava con sé .
Mi disse, ad un certo punto che era tempo che io facessi l’esperienza di Lourdes.
Non posso -dissi subito- ho i bambini da accudire e poi non potrei essere d’ aiuto a nessuno con questo mio dolore alle gambe!
Nessuno però prendeva sul serio i miei problemi fisici. Erano tutti convinti che esageravo nel lamentarmi e che in fondo ero una persona abbastanza forte.
Perché dissi di si? Forse per dimostrare a me stessa e ai miei familiari che anch’io potevo dedicarmi agli altri, a persone che non conoscevo e che avevano bisogno di aiuto. Partii da casa mia con una divisa bianca , con il velo sul capo e con i piedi di piombo. I miei bambini alla stazione aggrappati al padre mi salutarono contenti mentre mia madre mi ripeteva di non preoccuparmi e che avrebbe pensato lei alla mia famiglia.
Il treno bianco che portava i malati a Lourdes era allora un mezzo di trasporto molto complicato. Occorrevano circa due giorni e mezzo di cammino e noi dame di carità insieme ai barellieri dovevamo provvedere a tutti i bisogni dei malati e dei pellegrini.
Nelle cuccette del treno ci alternavamo in due. A turno riposavamo e facevamo servizio nei corridoi del treno. Seduti sul predellino o all’impiedi nel corridoio chiacchieravamo del più e del meno e stringevamo amicizia con fratelli e sorelle di città diverse.
All’ora dei pasti porgevamo ai pellegrini piatti fumanti di pasta asciutta e provvedevamo a trasportare i grossi bidoni di latta pieni di cibo o vuoti da una parte all’altra del vagone.
Arrivati a Lourdes, ci sistemammo in albergo e quindi cominciammo i nostri turni in ospedale.
Da premettere che, in vita mia, non avevo mai avuto occasione di badare a persone malate. Forse ero un po’ viziata o forse per una mia repulsione alla sofferenza e al dolore, mi ero sempre tirata indietro di fronte al malato che soffre. Chi dovetti assistere in quel mio primo viaggio a Lourdes ? un povero signore che non aveva le gambe. Gli erano state tagliate entrambe e si presentava come un mezzo busto. Una statua . Quando lo vidi, rimasi subito colpita, ma pensai opportunamente che poteva fare al caso mio perché sicuramente pesava meno degli altri. Mi terrorizzava il fatto di dover spingere la carrozzella di qualche donna o uomo enorme e di dover sostenere il mio peso e quello di altri. Nino, il poveretto senza gambe si rivelò un tipo simpatico. Rideva dei suoi mali e faceva continue battute su se stesso. Moglie e figli non si occupavano di lui e lì a Lourdes, lontano dal suo ambiente, sembrava rinato. Lo portavo in giro tutto il giorno , portavo in giro la mia statua a mezzo busto e ero sempre la prima ad arrivare. Gli spiegavo le cerimonie religiose, gli raccontavo la storia di Bernadette e dei suoi incontri nella grotta e lo vedevo commosso e contento. Furono sette giorni in cui mi scordai completamente di me stessa e dei miei problemi.
Fu solo quando ritornai a casa che mi ricordai delle mie gambe. “Come te la sei passata con i dolori alle gambe?” mi chiese mia madre. Le gambe. Ebbi un attimo di esitazione. Non mi ero più ricordata di loro e le mie gambe erano guarite dai loro problemi. Nino, l’uomo senza gambe, aveva operato un miracolo.
Ero giovane allora. Giovane ma non tanto da non avvertire nel mio corpo il peso dell’età che avanza. Dopo le gravidanze, i figli, le fatiche proprie della donna che lavora e che deve badare anche alla conduzione del menage domestico avvertivo in me la stanchezza dell’organismo in fase di cambiamento. Un’ incredibile pesantezza alle gambe mi causava molto fastidio e mi impediva di svolgere normalmente le mie giornate. Ricordo che cercavo continuamente del sollievo alzando le gambe sulle sedie e chiedendo scusa a coloro che mi stavano vicino. Anche di notte avvertivo bruciori nelle gambe. Mi alzavo allora e camminavo a piedi nudi per casa cercando sollievo nella frescura del pavimento di ceramica.
Non c’erano medicine o cure che potevano darmi sollievo e così tiravo a campare sperando che il giorno successivo fosse migliore di quello presente.
In quel periodo io e mio marito eravamo molto attivi in parrocchia. Insieme a coppie della nostra età avevamo creato un gruppo di ricerca spirituale e di preghiera e ci sentivamo forti e attivi in parrocchia e in città.
L’amica che ci spronava ad agire in nome della carità cristiana era allora Anna. Rimasta vedova ancora giovane, Anna si era votata interamente al bene e alle opere di carità. Come un fiume in piena ci spingeva ad aiutare i più deboli , ci coinvolgeva con le sue storie di vita e spesso ci trascinava con sé .
Mi disse, ad un certo punto che era tempo che io facessi l’esperienza di Lourdes.
Non posso -dissi subito- ho i bambini da accudire e poi non potrei essere d’ aiuto a nessuno con questo mio dolore alle gambe!
Nessuno però prendeva sul serio i miei problemi fisici. Erano tutti convinti che esageravo nel lamentarmi e che in fondo ero una persona abbastanza forte.
Perché dissi di si? Forse per dimostrare a me stessa e ai miei familiari che anch’io potevo dedicarmi agli altri, a persone che non conoscevo e che avevano bisogno di aiuto. Partii da casa mia con una divisa bianca , con il velo sul capo e con i piedi di piombo. I miei bambini alla stazione aggrappati al padre mi salutarono contenti mentre mia madre mi ripeteva di non preoccuparmi e che avrebbe pensato lei alla mia famiglia.
Il treno bianco che portava i malati a Lourdes era allora un mezzo di trasporto molto complicato. Occorrevano circa due giorni e mezzo di cammino e noi dame di carità insieme ai barellieri dovevamo provvedere a tutti i bisogni dei malati e dei pellegrini.
Nelle cuccette del treno ci alternavamo in due. A turno riposavamo e facevamo servizio nei corridoi del treno. Seduti sul predellino o all’impiedi nel corridoio chiacchieravamo del più e del meno e stringevamo amicizia con fratelli e sorelle di città diverse.
All’ora dei pasti porgevamo ai pellegrini piatti fumanti di pasta asciutta e provvedevamo a trasportare i grossi bidoni di latta pieni di cibo o vuoti da una parte all’altra del vagone.
Arrivati a Lourdes, ci sistemammo in albergo e quindi cominciammo i nostri turni in ospedale.
Da premettere che, in vita mia, non avevo mai avuto occasione di badare a persone malate. Forse ero un po’ viziata o forse per una mia repulsione alla sofferenza e al dolore, mi ero sempre tirata indietro di fronte al malato che soffre. Chi dovetti assistere in quel mio primo viaggio a Lourdes ? un povero signore che non aveva le gambe. Gli erano state tagliate entrambe e si presentava come un mezzo busto. Una statua . Quando lo vidi, rimasi subito colpita, ma pensai opportunamente che poteva fare al caso mio perché sicuramente pesava meno degli altri. Mi terrorizzava il fatto di dover spingere la carrozzella di qualche donna o uomo enorme e di dover sostenere il mio peso e quello di altri. Nino, il poveretto senza gambe si rivelò un tipo simpatico. Rideva dei suoi mali e faceva continue battute su se stesso. Moglie e figli non si occupavano di lui e lì a Lourdes, lontano dal suo ambiente, sembrava rinato. Lo portavo in giro tutto il giorno , portavo in giro la mia statua a mezzo busto e ero sempre la prima ad arrivare. Gli spiegavo le cerimonie religiose, gli raccontavo la storia di Bernadette e dei suoi incontri nella grotta e lo vedevo commosso e contento. Furono sette giorni in cui mi scordai completamente di me stessa e dei miei problemi.
Fu solo quando ritornai a casa che mi ricordai delle mie gambe. “Come te la sei passata con i dolori alle gambe?” mi chiese mia madre. Le gambe. Ebbi un attimo di esitazione. Non mi ero più ricordata di loro e le mie gambe erano guarite dai loro problemi. Nino, l’uomo senza gambe, aveva operato un miracolo.
martedì 13 settembre 2011
dalla germania con amore
DALLA GERMANIA CON AMORE
“Come ha conosciuto suo marito?”
E’ una domanda che molti rivolgono ad Elena, una simpatica signora che vive a Mazara del vallo con il marito tedesco.
Lei racconta a tutti la sua storia e, ascoltandola, non si può fare a meno di confrontare il modo in cui i due si sono conosciuti con i tanti incontri sentimentali che oggi avvengono tramite internet,chattando, magari dopo aver visto delle immagini sul computer. Le foto in bianco e nero di un tempo e il computer di oggi : in fondo l’amore si serve di strade sempre uguali pur nella loro diversità .
Elena è sempre pronta a soddisfare la curiosità di chi vuol sapere i particolari dell’incontro con il suo principe azzurro.
-Come cominciò la mia storia ? Con un album di fotografie.
Si, proprio un bell’album di matrimonio, con foto in bianco e nero, volti immobilizzati in momenti gioiosi ma freddi e distanti, come la distanza enorme che separa il piccolo mondo provinciale di Mazara del vallo, cittadina del profondo sud della Sicilia, e il mondo tedesco dove lui, il mio innamorato, risiedeva.
Nell’album che la mia amica festosamente volle mostrare ai colleghi tedeschi invitati a casa sua per una cena, c’era la mia foto . Sorridevo davanti all’obiettivo stringendo il braccio di un mio parente e immortalandomi in quella foto, andavo incontro al mio destino.
-Chi è questa ragazza?- disse Wilfried, giovane collega della sposa, segnando con il dito la mia figura.
-Amica, vicina di casa-cercò di spiegare Maria servendosi del ristretto vocabolario tedesco che allora conosceva.
-Bella!-disse allora lui- chi è uomo?-
-Uno zio!- rispose Maria , convinta che l’argomento fosse già concluso
Invece no. Wilfried manifestò l’intenzione di conoscermi; si vede che gli ero piaciuta a prima vista!
Pensò bene allora di farmi pervenire una sua lettera, scritta in tedesco con la traduzione a lato, tramite la mia amica. Mi mandò anche una sua foto. Possibile che questo bel giovane ventunenne, alto, biondo, tedesco, pensavo io, si interessi a me senza avermi mai vista?
Ridevano i miei parenti e mi prendevano in giro; io rispedii al mittente lettera e foto dicendo che la cosa non mi interessava.
Ma credete che lui si sia rassegnato ? nient’affatto.
Fece di tutto per farsi invitare dalla mia amica a trascorrere una vacanza estiva a Mazara e così arrivò nella mia città, anzi venne a vivere nel mio stesso condominio dove abitavano anche i genitori della mia amica. Voleva conoscermi.
Quando lo vidi, ebbi lo stesso atteggiamento che avevo avuto guardando la foto. Incredulità. Possibile, mi dicevo, possibile che un ragazzo così bello si interessi a me? Mi chiedeva di uscire, fare una passeggiata ma, dalle nostre parti, non si usava uscire con i ragazzi. Mi ripeteva :- Francofort, Francofort!- e io non capivo cosa intendesse dire. Voleva che andassi con lui a Francoforte, ma questo lo capii dopo.
Ritornato in Germania, cominciò a studiare l’italiano per amor mio e a scrivermi belle lettere d’amore. L’anno successivo venne in Sicilia per chiedere ufficialmente la mia mano. Doveva però fare una gita di alcuni mesi con degli amici e , mi disse , al suo ritorno ci saremmo sposati. Così è stato. Io andai in Germania senza conoscere una parola di tedesco e, con l’aiuto dei miei suoceri, trovai lavoro presso una fabbrica di medicine. Inserita in un nuovo ambiente, dovetti cominciare ad imparare il tedesco. Dopo sei mesi ero in grado di parlarlo perfettamente.
Sono passati 45 anni dal mio matrimonio. Abbiamo abitato in Svizzera per trent’ anni e poi siamo venuti a vivere a Mazara. I miei due figli sono cresciuti in un ambiente bilingue e sentono di essere italiani ma anche tedeschi. Wilfried ama molto la mia città, tanto che credo che, oltre che di me, si sia innamorato anche della Sicilia.”
La storia di Elena e di Wilfried mi sembra una bella testimonianza di come culture diverse possono convivere solo se la scintilla che fa nascere l’amore è così grande da dissipare ogni tipo di tenebra.
“Come ha conosciuto suo marito?”
E’ una domanda che molti rivolgono ad Elena, una simpatica signora che vive a Mazara del vallo con il marito tedesco.
Lei racconta a tutti la sua storia e, ascoltandola, non si può fare a meno di confrontare il modo in cui i due si sono conosciuti con i tanti incontri sentimentali che oggi avvengono tramite internet,chattando, magari dopo aver visto delle immagini sul computer. Le foto in bianco e nero di un tempo e il computer di oggi : in fondo l’amore si serve di strade sempre uguali pur nella loro diversità .
Elena è sempre pronta a soddisfare la curiosità di chi vuol sapere i particolari dell’incontro con il suo principe azzurro.
-Come cominciò la mia storia ? Con un album di fotografie.
Si, proprio un bell’album di matrimonio, con foto in bianco e nero, volti immobilizzati in momenti gioiosi ma freddi e distanti, come la distanza enorme che separa il piccolo mondo provinciale di Mazara del vallo, cittadina del profondo sud della Sicilia, e il mondo tedesco dove lui, il mio innamorato, risiedeva.
Nell’album che la mia amica festosamente volle mostrare ai colleghi tedeschi invitati a casa sua per una cena, c’era la mia foto . Sorridevo davanti all’obiettivo stringendo il braccio di un mio parente e immortalandomi in quella foto, andavo incontro al mio destino.
-Chi è questa ragazza?- disse Wilfried, giovane collega della sposa, segnando con il dito la mia figura.
-Amica, vicina di casa-cercò di spiegare Maria servendosi del ristretto vocabolario tedesco che allora conosceva.
-Bella!-disse allora lui- chi è uomo?-
-Uno zio!- rispose Maria , convinta che l’argomento fosse già concluso
Invece no. Wilfried manifestò l’intenzione di conoscermi; si vede che gli ero piaciuta a prima vista!
Pensò bene allora di farmi pervenire una sua lettera, scritta in tedesco con la traduzione a lato, tramite la mia amica. Mi mandò anche una sua foto. Possibile che questo bel giovane ventunenne, alto, biondo, tedesco, pensavo io, si interessi a me senza avermi mai vista?
Ridevano i miei parenti e mi prendevano in giro; io rispedii al mittente lettera e foto dicendo che la cosa non mi interessava.
Ma credete che lui si sia rassegnato ? nient’affatto.
Fece di tutto per farsi invitare dalla mia amica a trascorrere una vacanza estiva a Mazara e così arrivò nella mia città, anzi venne a vivere nel mio stesso condominio dove abitavano anche i genitori della mia amica. Voleva conoscermi.
Quando lo vidi, ebbi lo stesso atteggiamento che avevo avuto guardando la foto. Incredulità. Possibile, mi dicevo, possibile che un ragazzo così bello si interessi a me? Mi chiedeva di uscire, fare una passeggiata ma, dalle nostre parti, non si usava uscire con i ragazzi. Mi ripeteva :- Francofort, Francofort!- e io non capivo cosa intendesse dire. Voleva che andassi con lui a Francoforte, ma questo lo capii dopo.
Ritornato in Germania, cominciò a studiare l’italiano per amor mio e a scrivermi belle lettere d’amore. L’anno successivo venne in Sicilia per chiedere ufficialmente la mia mano. Doveva però fare una gita di alcuni mesi con degli amici e , mi disse , al suo ritorno ci saremmo sposati. Così è stato. Io andai in Germania senza conoscere una parola di tedesco e, con l’aiuto dei miei suoceri, trovai lavoro presso una fabbrica di medicine. Inserita in un nuovo ambiente, dovetti cominciare ad imparare il tedesco. Dopo sei mesi ero in grado di parlarlo perfettamente.
Sono passati 45 anni dal mio matrimonio. Abbiamo abitato in Svizzera per trent’ anni e poi siamo venuti a vivere a Mazara. I miei due figli sono cresciuti in un ambiente bilingue e sentono di essere italiani ma anche tedeschi. Wilfried ama molto la mia città, tanto che credo che, oltre che di me, si sia innamorato anche della Sicilia.”
La storia di Elena e di Wilfried mi sembra una bella testimonianza di come culture diverse possono convivere solo se la scintilla che fa nascere l’amore è così grande da dissipare ogni tipo di tenebra.
venerdì 22 luglio 2011
Francese o inglese?
Francese o inglese?
Nella segreteria della Scuola si faceva la coda. Noi ragazzine che avevamo sostenuto l’esame di ammissione ed eravamo pronte per la Scuola Media, parlavamo dell’immediato nostro futuro.
Mia cugina, più esperta di me perché aveva una sorella più grande, sapeva il fatto suo.
- Ci sono due corsi, diceva, uno di inglese e l’altro di francese.
- Si, rispondeva Rosa,( anche lei con sorella che aveva già frequentato la scuola superiore), nel corso d’inglese c’è la professoressa Norrito, nel francese la professoressa Romano.
Fu così che imparai il nome delle due insegnanti che accoglievano timide undicenni per accompagnarle nei tre anni di Scuola media. Insegnanti donne, insegnanti per classi femminili.
Erano gli anni cinquanta , periodo in cui pesavano ancora i ricordi di ciò che la storia ci aveva consegnato e , in una società ancora fortemente disorganizzata, tutti sentivano il bisogno di trovare esempi da imitare. La figura dell’insegnante emergeva allora come un piccolo faro di conoscenza e saggezza perché aveva il gravoso compito di formare le nuove generazioni.
E’ proprio vero; non si riesce a capire un’intera generazione se non si risale a chi l’ha plasmata e direttamente modificata e sono convinta che non è mai cosa inutile parlare di chi ci ha preceduto
per il semplice fatto che ritroviamo in loro le nostre radici.
Le vedemmo spuntare dalla stradina che conduceva in piazza Plebiscito. Erano due donne all’apparenza molto diverse. Forse solo la cultura e i libri sottobraccio riusciva ad accomunarle. La professoressa Romano, capelli biondi e ben curati, grossi occhiali da intellettuale, elegante ed aggraziata, mostrava il fascino sano della madre di famiglia che tende ad allargare il suo raggio di azione occupandosi anche dei figli non suoi; aveva modi garbati, era simpatica e sorridente.
L’altra, la professoressa Norrito, appariva allora tutto il contrario. Rigida, impettita, crocchia di capelli castani sul capo, seria, non lasciava trasparire emozioni o sentimenti.
Le guardavamo avanzare verso la scuola e dentro di noi sceglievamo di seguire il corso di francese.
Francese, francese, dicevamo, e sceglievamo la donna con famiglia e non la zitella che guardava diritto senza cercarci con lo sguardo. Poi però in segreteria ci convincevano che il corso d’inglese era altrettanto valido. L’inglese è la lingua del futuro, oggi si parla inglese dappertutto, non capite che siamo alle soglie di una nuova epoca?
Così anch’io feci la mia scelta: inglese.
Con il tempo imparai ad amare la signorina Norrito che si sposò anche lei. Tardi, ma si sposò.
Mi rimase però una simpatia per la signora bionda che mi sorrideva e mi rivolgeva la parola affabilmente solo perché era l’insegnante di mia cugina.
Ricordo di aver anche pensato che mi sarebbe piaciuto essere come lei da grande. Uno dei tanti esempi da imitare.
Maria Grazia Vitale
Nella segreteria della Scuola si faceva la coda. Noi ragazzine che avevamo sostenuto l’esame di ammissione ed eravamo pronte per la Scuola Media, parlavamo dell’immediato nostro futuro.
Mia cugina, più esperta di me perché aveva una sorella più grande, sapeva il fatto suo.
- Ci sono due corsi, diceva, uno di inglese e l’altro di francese.
- Si, rispondeva Rosa,( anche lei con sorella che aveva già frequentato la scuola superiore), nel corso d’inglese c’è la professoressa Norrito, nel francese la professoressa Romano.
Fu così che imparai il nome delle due insegnanti che accoglievano timide undicenni per accompagnarle nei tre anni di Scuola media. Insegnanti donne, insegnanti per classi femminili.
Erano gli anni cinquanta , periodo in cui pesavano ancora i ricordi di ciò che la storia ci aveva consegnato e , in una società ancora fortemente disorganizzata, tutti sentivano il bisogno di trovare esempi da imitare. La figura dell’insegnante emergeva allora come un piccolo faro di conoscenza e saggezza perché aveva il gravoso compito di formare le nuove generazioni.
E’ proprio vero; non si riesce a capire un’intera generazione se non si risale a chi l’ha plasmata e direttamente modificata e sono convinta che non è mai cosa inutile parlare di chi ci ha preceduto
per il semplice fatto che ritroviamo in loro le nostre radici.
Le vedemmo spuntare dalla stradina che conduceva in piazza Plebiscito. Erano due donne all’apparenza molto diverse. Forse solo la cultura e i libri sottobraccio riusciva ad accomunarle. La professoressa Romano, capelli biondi e ben curati, grossi occhiali da intellettuale, elegante ed aggraziata, mostrava il fascino sano della madre di famiglia che tende ad allargare il suo raggio di azione occupandosi anche dei figli non suoi; aveva modi garbati, era simpatica e sorridente.
L’altra, la professoressa Norrito, appariva allora tutto il contrario. Rigida, impettita, crocchia di capelli castani sul capo, seria, non lasciava trasparire emozioni o sentimenti.
Le guardavamo avanzare verso la scuola e dentro di noi sceglievamo di seguire il corso di francese.
Francese, francese, dicevamo, e sceglievamo la donna con famiglia e non la zitella che guardava diritto senza cercarci con lo sguardo. Poi però in segreteria ci convincevano che il corso d’inglese era altrettanto valido. L’inglese è la lingua del futuro, oggi si parla inglese dappertutto, non capite che siamo alle soglie di una nuova epoca?
Così anch’io feci la mia scelta: inglese.
Con il tempo imparai ad amare la signorina Norrito che si sposò anche lei. Tardi, ma si sposò.
Mi rimase però una simpatia per la signora bionda che mi sorrideva e mi rivolgeva la parola affabilmente solo perché era l’insegnante di mia cugina.
Ricordo di aver anche pensato che mi sarebbe piaciuto essere come lei da grande. Uno dei tanti esempi da imitare.
Maria Grazia Vitale
sabato 16 luglio 2011
L'avventura di Carlo il coloniale
Quando Carlo presentò la domanda per arruolarsi come volontario in Africa orientale, molti suoi concittadini erano già partiti per cercare fortuna nel vicino continente dove si trovavano le colonie.
L'Italia, come tanti altri paesi europei, aveva cominciato ad espandere la propria influenza politica e commerciale nel Mar Rosso, divenuto importantissimo per i traffici con l’Oriente. L’avventura coloniale italiana, iniziata con l'acquisto, da parte della società Italiana di navigazione Rubattino, di una base commerciale nella baia di Assab , aveva proseguito con una serie di accordi commerciali, protettorati, occupazioni militari e guerre atte ad allargare il territorio. La prima colonia nel Corno d’Africa era stata l’Eritrea; in seguito, l’Italia riuscì ad avere la Somalia nel 1926 e
quindi una terza e più estesa colonia:l’Etiopia.
Nel 1938 queste colonie costituirono l’ A.O.I. AFRICA ORIENTALE ITALIANA
Un servizio aeropostale attivato nel 1935 collegava tutto il Corno d'Africa coloniale italiano con la Madre Patria permettendo lo scambio di notizie tra i nostri emigranti in Africa e le famiglie rimaste in patria. Le lettere sopravvissute al lungo trascorrere del tempo ci restituiscono nitidamente gli aspetti soggettivi e autobiografici del nostro passato coloniale, di quell'inseguimento «al posto al sole» che si protrasse ininterrottamente fino alla metà del Novecento. Centinaia di migliaia furono i nostri concittadini che in Eritrea, Libia, Somalia, Etiopia, furono coinvolti nel «sogno africano». Andare in Africa significava individuare la via più breve e più sicura per realizzare i sogni della famiglia e magari trovare un impiego al termine della campagna della conquista coloniale. Andare in Africa rafforzava anche l'orgoglio di sentirsi allo stesso tempo italiani e conquistatori, perché si partiva per andare a civilizzare popoli incivili e insegnare i fondamenti della igiene e della vita sociale. Purtroppo però, al ritorno dalla loro avventura africana, i coloniali si trovarono in mezzo alla guerra e quello fu un capitolo diverso della nostra storia.
L'Italia, come tanti altri paesi europei, aveva cominciato ad espandere la propria influenza politica e commerciale nel Mar Rosso, divenuto importantissimo per i traffici con l’Oriente. L’avventura coloniale italiana, iniziata con l'acquisto, da parte della società Italiana di navigazione Rubattino, di una base commerciale nella baia di Assab , aveva proseguito con una serie di accordi commerciali, protettorati, occupazioni militari e guerre atte ad allargare il territorio. La prima colonia nel Corno d’Africa era stata l’Eritrea; in seguito, l’Italia riuscì ad avere la Somalia nel 1926 e
quindi una terza e più estesa colonia:l’Etiopia.
Nel 1938 queste colonie costituirono l’ A.O.I. AFRICA ORIENTALE ITALIANA
Un servizio aeropostale attivato nel 1935 collegava tutto il Corno d'Africa coloniale italiano con la Madre Patria permettendo lo scambio di notizie tra i nostri emigranti in Africa e le famiglie rimaste in patria. Le lettere sopravvissute al lungo trascorrere del tempo ci restituiscono nitidamente gli aspetti soggettivi e autobiografici del nostro passato coloniale, di quell'inseguimento «al posto al sole» che si protrasse ininterrottamente fino alla metà del Novecento. Centinaia di migliaia furono i nostri concittadini che in Eritrea, Libia, Somalia, Etiopia, furono coinvolti nel «sogno africano». Andare in Africa significava individuare la via più breve e più sicura per realizzare i sogni della famiglia e magari trovare un impiego al termine della campagna della conquista coloniale. Andare in Africa rafforzava anche l'orgoglio di sentirsi allo stesso tempo italiani e conquistatori, perché si partiva per andare a civilizzare popoli incivili e insegnare i fondamenti della igiene e della vita sociale. Purtroppo però, al ritorno dalla loro avventura africana, i coloniali si trovarono in mezzo alla guerra e quello fu un capitolo diverso della nostra storia.
domenica 27 febbraio 2011
i doni di Dio
I DONI DI DIO
(antica poesia indiana)
Gli ho chiesto la forza
e Dio mi ha dato difficoltà per rendermi forte.
Gli ho chiesto la saggezza
e Dio mi ha dato problemi da risolvere.
Gli ho chiesto la prosperità
e Dio mi ha dato muscoli e cervello per lavorare.
Gli ho chiesto il coraggio
e Dio mi ha dato pericoli da superare.
Gli ho chiesto l’Amore
e Dio mi ha affidato persone bisognose da aiutare.
Gli ho chiesto favori
e Dio mi ha dato opportunità.
Non ho ricevuto nulla di ciò che volevo
ma tutto quello di cui avevo bisogno.
La mia preghiera è stata ascoltata.
(antica poesia indiana)
Gli ho chiesto la forza
e Dio mi ha dato difficoltà per rendermi forte.
Gli ho chiesto la saggezza
e Dio mi ha dato problemi da risolvere.
Gli ho chiesto la prosperità
e Dio mi ha dato muscoli e cervello per lavorare.
Gli ho chiesto il coraggio
e Dio mi ha dato pericoli da superare.
Gli ho chiesto l’Amore
e Dio mi ha affidato persone bisognose da aiutare.
Gli ho chiesto favori
e Dio mi ha dato opportunità.
Non ho ricevuto nulla di ciò che volevo
ma tutto quello di cui avevo bisogno.
La mia preghiera è stata ascoltata.
lunedì 14 febbraio 2011
Per San Valentino
A Saverio
Arco di vita sospeso nel tempo,
solco d’infinito nei cuori,
lontani i richiami d’amore.
Insieme ascoltiamo
il fruscio dei giorni presenti
che hanno il dolce profumo
delle nostre giovanili speranze,
insieme attendiamo
sereni momenti di pace
lungo la via del tramonto.
Arco di vita sospeso nel tempo,
solco d’infinito nei cuori,
lontani i richiami d’amore.
Insieme ascoltiamo
il fruscio dei giorni presenti
che hanno il dolce profumo
delle nostre giovanili speranze,
insieme attendiamo
sereni momenti di pace
lungo la via del tramonto.
giovedì 13 gennaio 2011
UN PO’ DI STORIA DELLA MIA CASA
Nel 1926 un edificio quadrangolare, costruito ai limiti del centro storico con la facciata principale sul Corso più importante di una piccola città siciliana e l’altra in una stradina laterale, fu acquistato da una giovane coppia che sperava di trascorrervi serenamente i suoi giorni. Purtroppo però, le cose non andarono bene per il marito, emigrante in Argentina, che sparì in quel lontano paese senza lasciare traccia. Allora la moglie, donna Ciccina, per vivere, diede in affitto alcuni locali dell’edificio.
Nel pianoterra due artigiani vi impiantarono due case-putia.
La casa-putia, casa con bottega, aveva in passato una doppia funzione: nella stanza che aveva accesso sulla strada si svolgeva il lavoro del proprietario, artigiano o commerciante, mentre le stanze interne servivano come abitazione vera e propria.
Di solito un cortile, curtigghiu, in parte aperto, serviva per l’areazione delle stanze interne e veniva utilizzato da una o più famiglie.
Don Turiddu, catanese di origine, di professione tappezziere, assieme alla moglie, signora Nannina, aveva sistemato casa e bottega nelle due stanze del piano terra. La sua putia serviva anche come spazio abitativo per la famiglia. Molto spesso il catanese lavorava fuori sul marciapiede antistante la casa e i passanti si fermavano e , per riposarsi, si sedevano sulle poltrone scheletriche, che attendevano il loro rivestimento di stoffa damascata.
Due erano gli appartamenti del pianoterra ; in uno vi abitava appunto il tappezziere, nell’altro aveva impiantato la sua putia mastro Ciccio, soprannominato Trumbatorta . Di professione faceva lo stagnino o stagnataro.
Non si riusciva a capire quanti anni avesse mastro Ciccio Trumbatorta, nè si conosceva il suo vero cognome; forse la sua età era compresa fra i cinquanta e i sessanta anni, ma certamente mostrava più anni di quanti effettivamente ne avesse. Aveva baffetti neri con qualche pelo già bianco e capelli unti di brillantina di un colore indefinibile.
Se ne stava tutto il giorno seduto davanti al suo banchetto di stagnino o stagnataro e, mentre riparava pentole e coperchi, raccontava gli ultimi avvenimenti.
Dalla sua putia passavano le storie di tutti i mazaresi, ricchi e poveri, uomini e donne, giovani e vecchi.
Mastro Ciccio conosceva e sapeva parlare di tutti, aveva un fiuto speciale per le novità, sapeva intuire la notizia nascosta dietro alle chiacchiere della gente e, districandosi in mezzo alle dicerie, sapeva azzeccare la soluzione più plausibile e veritiera.
Ascoltare i suoi pettegolezzi e le sue storie era come leggere un giornale ed era opinione comune che nessun cronista avrebbe potuto conoscere tanti dettagli sui personaggi del tempo.
Il piccolo cortile della casa, principalmente adoperato come cucina e lavanderia dagli abitanti del piano terra, aveva una grossa pila scura di marmo nel centro della parete, mentre nella zona coperta c’era un focolari e un cantaru, cioè una specie di gabinetto all’aperto.
Quando i componenti delle due famiglie si trovavano ad utilizzare lu cantaru, dovevano badare bene a tenere chiusa con una mano la porta d’ingresso del cortile, perchè si poteva correre il rischio di farsi scoprire con le vesti per aria da chi apriva di botto la porta.
Gli odori intensi di carbone, escrementi e cibo cotto che caratterizzavano questo ambiente sono rimasti assorbiti nelle vecchie mura e ancora, prestando attenzione e servendomi di un pizzico di nostalgia, mi sembra di avvertirne l’ odore. Uno degli odori della mia infanzia.
Nel 1926 un edificio quadrangolare, costruito ai limiti del centro storico con la facciata principale sul Corso più importante di una piccola città siciliana e l’altra in una stradina laterale, fu acquistato da una giovane coppia che sperava di trascorrervi serenamente i suoi giorni. Purtroppo però, le cose non andarono bene per il marito, emigrante in Argentina, che sparì in quel lontano paese senza lasciare traccia. Allora la moglie, donna Ciccina, per vivere, diede in affitto alcuni locali dell’edificio.
Nel pianoterra due artigiani vi impiantarono due case-putia.
La casa-putia, casa con bottega, aveva in passato una doppia funzione: nella stanza che aveva accesso sulla strada si svolgeva il lavoro del proprietario, artigiano o commerciante, mentre le stanze interne servivano come abitazione vera e propria.
Di solito un cortile, curtigghiu, in parte aperto, serviva per l’areazione delle stanze interne e veniva utilizzato da una o più famiglie.
Don Turiddu, catanese di origine, di professione tappezziere, assieme alla moglie, signora Nannina, aveva sistemato casa e bottega nelle due stanze del piano terra. La sua putia serviva anche come spazio abitativo per la famiglia. Molto spesso il catanese lavorava fuori sul marciapiede antistante la casa e i passanti si fermavano e , per riposarsi, si sedevano sulle poltrone scheletriche, che attendevano il loro rivestimento di stoffa damascata.
Due erano gli appartamenti del pianoterra ; in uno vi abitava appunto il tappezziere, nell’altro aveva impiantato la sua putia mastro Ciccio, soprannominato Trumbatorta . Di professione faceva lo stagnino o stagnataro.
Non si riusciva a capire quanti anni avesse mastro Ciccio Trumbatorta, nè si conosceva il suo vero cognome; forse la sua età era compresa fra i cinquanta e i sessanta anni, ma certamente mostrava più anni di quanti effettivamente ne avesse. Aveva baffetti neri con qualche pelo già bianco e capelli unti di brillantina di un colore indefinibile.
Se ne stava tutto il giorno seduto davanti al suo banchetto di stagnino o stagnataro e, mentre riparava pentole e coperchi, raccontava gli ultimi avvenimenti.
Dalla sua putia passavano le storie di tutti i mazaresi, ricchi e poveri, uomini e donne, giovani e vecchi.
Mastro Ciccio conosceva e sapeva parlare di tutti, aveva un fiuto speciale per le novità, sapeva intuire la notizia nascosta dietro alle chiacchiere della gente e, districandosi in mezzo alle dicerie, sapeva azzeccare la soluzione più plausibile e veritiera.
Ascoltare i suoi pettegolezzi e le sue storie era come leggere un giornale ed era opinione comune che nessun cronista avrebbe potuto conoscere tanti dettagli sui personaggi del tempo.
Il piccolo cortile della casa, principalmente adoperato come cucina e lavanderia dagli abitanti del piano terra, aveva una grossa pila scura di marmo nel centro della parete, mentre nella zona coperta c’era un focolari e un cantaru, cioè una specie di gabinetto all’aperto.
Quando i componenti delle due famiglie si trovavano ad utilizzare lu cantaru, dovevano badare bene a tenere chiusa con una mano la porta d’ingresso del cortile, perchè si poteva correre il rischio di farsi scoprire con le vesti per aria da chi apriva di botto la porta.
Gli odori intensi di carbone, escrementi e cibo cotto che caratterizzavano questo ambiente sono rimasti assorbiti nelle vecchie mura e ancora, prestando attenzione e servendomi di un pizzico di nostalgia, mi sembra di avvertirne l’ odore. Uno degli odori della mia infanzia.
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